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L’Europa dei salotti e l’illusione del cambiamento: un evento senza politica

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Se ne parlerà per qualche giorno, come sempre, poi il silenzio. Avanti il prossimo. La manifestazione pro-Europa promossa da La Repubblica del 15 marzo non ha lasciato nulla di concreto. Nessun programma, nessuna strategia, nessuna analisi dei rapporti di forza.

Solo una chiamata dei cascami liberal residuali, nostalgia degli anni Novanta, aggrappati a un’idea di civismo individualista e spoliticizzato, ormai del tutto inefficace. Non a caso, i promotori hanno escluso bandiere e partiti: “ognuno rappresenta se stesso”. Ma questa non è apertura, è una resa.

L’Europa dei salotti. Il paradosso della sinistra neoliberale

L’evento ha mostrato una sinistra che rinnega sé stessa. Nell’abbandonare la dimensione collettiva e strutturale dei problemi, ha finito per incarnare i principi del liberalismo più sfrenato, diventando indistinguibile dalla destra tecnocratica.

Nel frattempo, le vere questioni sociali restano fuori dalla discussione: la precarietà lavorativa, la concentrazione della ricchezza, il peso delle politiche di austerità. Temi che una sinistra degna di questo nome dovrebbe affrontare, invece di rifugiarsi in celebrazioni astratte e moralistiche.

I discorsi ascoltati in Piazza del Popolo sono stati un susseguirsi di frasi fatte. Gli “ottant’anni di pace europea” ripetuti come un mantra, dimenticando le guerre nei Balcani e il sostegno implicito a conflitti in tutto il mondo.

L’elogio della democrazia europea, senza il minimo accenno al fatto che in Italia milioni di cittadini si sono espressi contro l’invio di armi, senza ottenere alcuna rappresentanza. Infine, la celebrazione della “cultura europea”, ridotta a una sfilata di nomi illustri, senza alcuna riflessione sulla funzione politica della cultura stessa.

Le ambiguità sulla guerra

Ancora più inquietante è stato il tono vago e ambivalente con cui alcuni oratori hanno parlato della guerra. “Non tutte le paci sono accettabili”, ha affermato Roberto Vecchioni, senza però spiegare cosa significhi concretamente.

Se non tutte le paci sono accettabili, allora quale sarebbe l’alternativa? Si auspica un’escalation militare? L’intervento diretto dell’Europa nel conflitto? Nessuno ha posto queste domande, nessuno ha cercato risposte.

Un vuoto culturale

Un elemento ricorrente è stata la superficialità culturale. Michele Serra ha sfoggiato il solito sarcasmo, senza però offrire un solo spunto di riflessione solido. Quando ha evocato la crisi greca, è stato impossibile non notare l’ipocrisia: dov’era il suo giornale quando l’Unione Europea imponeva sacrifici devastanti alla Grecia? Il suo monologo si è poi chiuso con la solita retorica sul popolo italiano “viziato”, dimenticando i milioni di persone che lottano ogni giorno per arrivare a fine mese.

Il grande assente: la diplomazia

La parola “diplomazia” non è mai comparsa nei discorsi della giornata. Un’assenza significativa, perché parlare di diplomazia significa affrontare il problema in modo realistico. Ma per farlo servirebbe cultura politica, una conoscenza minima dei meccanismi internazionali, dei negoziati, dei trattati. Tutto questo è stato sostituito da una vuota retorica europeista, che ignora tanto la complessità della politica globale quanto le reali istanze della società.

Questa manifestazione non ha rilanciato il dibattito europeo, né ha offerto un’alternativa politica concreta. È stata solo un esercizio di autocompiacimento di una borghesia intellettuale sempre più scollegata dalla realtà. L’Europa avrebbe bisogno di un progetto, di idee nuove, di una sinistra capace di incidere sulla società. Ma tutto questo, a Piazza del Popolo, non c’era.

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