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Una sinistra emancipata dal conflitto di classe abbraccia l’espansione illimitata dei diritti individuali, scivolando nell’americanismo e nel mito dell’imprenditore di sé. Il dissenso si fa consumo culturale, integrato nel mercato. Ogni critica di stampo marxista (perchè l’hanno dimenticato o non lo conoscono affatto) è bollata come rossobrunismo.
Il Manifesto, i centri sociali e la paranoia rossobruna
Esiste una porzione della popolazione che si percepisce più libera, più emancipata, meno costretta all’interno del sistema neoliberale dei mercati rispetto a quello costituzionale del conflitto mediato dallo Stato. La cosiddetta società civile, così orgogliosamente di sinistra, non si identifica più con la classe ma fa riferimento solo ed esclusivamente all’espansione illimitata dei diritti individuali.
L’ossimoro “comunismo libertario”, al quale, più o meno, si rifanno i lettori de “Il Manifesto”, tenta di condensare in uno slogan questa sensibilità posturale. Nonostante la positività del nuovo “approccio Erasmus” all’esistenza, questi pirati della lotta alla desublimazione repressiva sono ossessionati da istituzioni che vorrebbero rieditare la vecchia società autoritaria, dove si faceva leva sulle inibizioni morali per soggiogare l’individuo alle regole etiche delle strutture collettive.
Lo Stato capace di esercitare una qualsiasi sovranità su una determinata nazione e la Chiesa cattolica, rappresentano gli enti ai quali contrapporre la leggerezza empatica dei “cittadini del mondo”. Ma anche i partiti e i sindacati hanno le loro colpe.
In questo quadro di riferimento tutto ciò che si frappone alle febbrili pulsioni di soggetti eternamente desideranti è classificabile come fascismo o, nel suo corollario più maligno, come rossobrunismo. Il fascismo evocato è ovviamente del tutto destoricizzato, reso così uno spauracchio utile perché il potere liberale possa adottare continue misure d’emergenza antipopolari, fino ad arrivare alla costruzione ideologica della guerra.
La variante rossobruna ha intenti discorsivi più sinistri poiché la si immagina un’ostile concorrente nell’area dell’antagonismo, dove il libertarismo post-operaista ha da tempo conquistato un’egemonia intellettuale.
Quest’area tutto sommato considera la rivoluzione neoliberale un passo in avanti rispetto al vecchio patto conflittuale delineato dalla Costituzione, poiché l’assenza di limiti alla libertà dei mercati riproduce, all’interno della società, lo sprigionamento di energie creative, vere e proprie epigone della scintilla imprenditoriale.
Ma è proprio su questo campo logico, quello dell’uomo/impresa, che il neoliberalismo ha conquistato le coscienze politiche dei vecchi sessantottini e dei loro eredi e, al di là di qualche manieristico proclama, è l’americanismo ad aver rappresentato il collante ideologico di quel mondo, ormai inesorabilmente sedotto dall’orizzonte postmoderno.
Motivo per cui, da anni, sollecita le rivoluzioni colorate contro gli autocrati nemici delle libertà occidentali e aderisce, con dedizione, alla crociata contro il multipolarismo delle dittature, perseguita in prima persona dai democratici americani.
Questa nuova cultura americanizzata fece irruzione nel panorama politico verso la metà degli anni ’80, quando, in pieno riflusso, dal protagonismo dei collettivi politici si passò a una sorta di rifugio sociopatico, raffigurato nella proliferazione dei centri sociali.
In quel contesto, l’aggregazione si formò attraverso la partecipazione di nuove soggettività perfettamente allineate alla logica del brand, del marketing e del consumo alternativo. Quella nuova cultura, veicolata da piccoli gruppi identitari, americanizzò il dissenso in chiave libertaria e culturale, stimolando un antagonismo non più anticapitalista.
La contro-cultura creativa spinse alla partecipazione un ceto mediamente istruito, dalle alte aspettative professionali, totalmente sconnesso dalla realtà proletaria e di classe, in un’atmosfera incentrata su un soggettivismo totalmente performativo.
Il dissenso così si spostò su piani esclusivamente espressivi, col tempo politicizzato attraverso le cosiddette guerre culturali; le stesse che foraggiano ideologicamente la nuova sete imperiale dell’Occidente collettivo.
Un rinnovato attivismo, nel percorso indicato dai centri sociali, fu sorretto dalla dimensione amicale e diede vita a un impegno politico meno ideologizzato, nel quale la prospettiva indicata dalla Rete, quale spazio aperto e nuova frontiera per l’emancipazione soggettiva, rappresentò la molla per la costruzione di un modello antropologico imperniato sulla figura dell’imprenditore di sé stesso che rompe in solitudine il patto sociale.
Una socialità alternativa in fin dei conti omologata al mito del privato, tanto che i centri sociali sorgono principalmente nelle periferie ma non le abitano appieno, in una forma di radicamento non perfettamente adiacente al territorio, che diventa superfluo e volatile.
Ed è in nome di quella socialità che i centri sociali sono diventati, col passare degli anni, delle vere e proprie aziende commerciali che, in quanto tali, hanno un estremo bisogno dell’amministrazione pubblica per la loro sopravvivenza.
Per concludere, senza con questo voler gettare il bambino con tutta l’acqua sporca, riconoscendo momenti e percorsi di conflitto spesso condivisibili, le battaglie sui diritti culturali, sulle identità, nascondono una volontà di integrazione dentro il sistema e non di opposizione al sistema.
Danno forma a soggettività politiche incentrate sugli stili di vita, sulle prerogative della quotidianità; sono meno propense a una trasformazione radicale della società.
Il ceto di riferimento, quello dei lavoratori della conoscenza, attraverso l’attivismo, sviluppano continue interrelazioni con possibilità d’impresa in una riproduzione estatica del modello Silicon Valley. Un ceto, dunque, ultra-capitalista, perfettamente integrato nel sistema dei mercati che ha bisogno di pulirsi la coscienza con un’adesione acritica a un comodo immaginario di sinistra, purché esso non torni a ragionare in termini marxisti, socialisti o di classe.
In quel caso, le squadracce dell’intellettualismo libertario saranno in prima linea a colpire i reprobi con l’infame accusa di rossobrunismo, a copertura di vere e proprie rendite di posizione.
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