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Se il Marxismo ha fallito, cosa può riprenderne fini e scopi?

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Il fine del marxismo è avere una teoria del cambiamento intenzionale dello stato delle cose sociali umane. cosa dovrebbe evitare una nuova teoria che ne prenda il posto è il motivo della ricerca.

Diario di ricerca sul Marxismo

Pierluigi Fagan*

Il marxismo è l’unica reale teoria emancipativa tendente egalitaria che abbiamo sfornato nella storia del pensiero umano, ma ha fallito ovvero si è dimostrata inadeguata a cogliere il suo fine e quindi lascia un vuoto che andrebbe riempito.

Perché ha fallito e quindi cosa dovrebbe evitare una nuova teoria che ne prenda il posto è il motivo della ricerca.

Il fine del marxismo è avere una teoria del cambiamento intenzionale dello stato delle cose sociali umane. C’è una sorta di ampio consenso esplicito (Gramsci, Lenin, Engels etc.) ed implicito sul fatto che questo fine sia espresso nella famosa XIa Tesi su Feuerbach.

Si noti che le undici tesi su Feuerbach erano degli appunti scritti dall’allora ventisettenne Marx e mai pubblicati quindi elaborati a dovere. Engels le pubblicherà solo nel 1888, quarantatré anni dopo e cinque anni dopo la morte dell’amico.

Ma se le undici tesi sono da intendersi come capitoli schematici di un ragionamento tutto da esplodere, la loro struttura significante è precisa ed è precisamente ciò che in essenza era la filosofia sottostante il pensiero di Marx. Almeno seguendo questo consenso quasi unanime che si rinviene in letteratura.

Dell’XI Tesi, ci sono varie traduzioni. In molti casi, compresa la prima traduzione italiana che si deve a Togliatti, sembra quasi volersi svalutare il fatto che l’azione di cambiamento umano ha necessaria premessa in un pensiero. Sembra quasi essersi formato un sentimento per il quale il grande, complesso e disordinato mondo della teoria ad un certo punto andava lasciato d’imperio per rivolgersi all’azione.

Ciò che conta, nei processi trasformativi, è l’azione. Va de sé che nei processi trasformativi ciò che conta è l’azione ma esiste solo l’azione nelle trasformazioni del solo universo fisico o chimico o biologico non intenzionale, cioè non umano.

Dove c’è l’umano c’è intenzionalità e l’intenzionalità è appunto il mondo della teoria, della premessa di pensiero. Se non avessimo cominciato a pensare prima di agire saremo ancora e solo dei primati forestali o ci saremo estinti.

Questa frattura tra pensiero ed azione, si ripete ogni volta che tipi psicologici orientati all’azione mostrano insofferenza verso gli intellettuali, del tipo ”si va bene, ma insomma -cosa precisamente bisogna fare per cambiare lo stato di cose?”.

La domanda è semplice, la risposta no, è proprio nella natura del lavoro teorico cercare di restringere il grande albero delle teorie possibili per distillare l’ordine di azione. Il tipo psicologico orientato all’azione diventa viepiù insofferente ogniqualvolta il tipo psicologico orientato alla ricerca teorica non riesce -e non vi riesce mai- a rispondere immediatamente e precisamente alla domanda, così la frattura si allarga sempre più.

Ma era questo il senso che aveva in mente Marx ed i suoi più avvertiti epigoni nell’interpretare questa frase che appunto parla di interpretazione del mondo per trarne l’ordine di azione su come trasformarlo secondo intenzione? Certamente no.

Per chiudere il senso dell’XI Tesi si deve leggere la IIa Tesi. La IIa delle undici Tesi, recita: «La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teoretica, ma pratica. È nella prassi che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non – realtà di un pensiero isolato dalla prassi è una questione puramente scolastica».

In pratica, Marx dice -giustamente- che se si rimane nell’universo teorico qualsiasi teoria sembra andare bene, ma per ragioni che nulla hanno a che vedere con il fine trasformativo.

Solo quando una teoria porta a perseguire secondo intenzione il fine trasformativo la teoria è vera, si deve uscire dall’universo teorico -da cui pur bisogna partire- e passare a quello pratico, pragmatico, concreto.

Qui Marx anticipa l’essenza del pragmatismo che poi svilupperanno gli americani Emerson, Pierce, James, Dewey etc.. Questi poi svilupperanno la linea che dal pensiero porta all’azione ritorcendola indietro ovvero quel circolo di “tentativi ed errori” dove il segnale di errore deve tornare alla teoria, modificarla per un nuovo tentativo fintanto che non si ottiene il risultato in intenzione.

Per una serie assai complicata di ragioni, il marxismo sembra non aver ben capito questa questione anche solo a livello di interpretazione dell’XI Tesi poiché -nei fatti- non ha certo cambiato il mondo con l’auspicata radicalità, tantomeno l’idea pragmatica di provare, modificare e riprovare le teorie fino a che si producono i risultati attesi.

Sintomatico che dopo lo shock dell”89-’91, i seguaci di questo plesso teorico, invece che mettere mano al cuore della teoria, abbiano provato a scaricare le “colpe” dei suoi cattivi risultati sulle interpretazioni (marxisti), per salvare la giustezza in purezza degli intenti originari (marxiani).

La IIa Tesi fa anche un riferimento alla Scolastica ovvero quell’ambito del pensiero medioevale che rimaneva recintato entro limiti solo logici, a dire che la logica del solo pensiero non corrisponde mai del tutto alla logica del reale. Considerazione che avrebbe dovuto suggerire ai marxisti, maggiore prudenza nell’assumere la dialettica hegeliana come motore della storia.

Due marxisti, tra gli altri, ben esemplificano questo problema: Gramsci e Lenin. Gramsci comprese appieno la questione del teorico-pratico ma per ragioni storico-biografiche, la carcerazione, non dovette più di tanto misurarsi con l’universo pratico-concreto, il che gli diede anche una certa -relativa- libertà di farsi domande sulla teoria in quanto tale, apportandovi delle modiche o dei tentativi di modifiche.

Comunque, la sua definizione del marxismo come “filosofia della prassi” è la più nitida definizione di quanto stavamo dicendo.
Lenin invece, assunse la teoria come canone preciso ed immodificabile (anche se non era “preciso” affatto), ma soprattutto dall’altra parte aveva un fatto concreto clamoroso: una rivoluzione da guidare.

Sto studiando appunto una biografia intellettuale di Lenin ed è palese il tormento teorico con quale si è misurato il russo laddove il mondo teorico delle varie forme del suo partito politico sin dal 1905, quello degli intellettuali, quello dei fatti politici concreti e soprattutto quelli che riguardavano l’azione politica nella classe operaia e contadina, sono come ponti in cui mai l’inizio è allineato alla fine, ogni ponte se ne va un po’ per conto suo.

Il russo pare avesse precisamente collezionato e ben messo in fila tutto il materiale teorico prodotto nel tempo da Marx e Engels, per scrivere il suo Stato e rivoluzione, che non finirà mai perché la rivoluzione fattiva e concreta, agita, andò più veloce della redazione del testo.

Ma fa anche umana simpatia leggere che il poveraccio, cominciò a collezionare una spaventosa sequenza di esaurimenti nervosi che ne rallentarono la mente e l’azione politica, fino alla prematura morte. Certo, gran parte del disagio psichico doveva provenire dall’immane compito storico-politico di cui si incaricò, ma dallo studio della sua mentalità, si evince che per lui, la “fedeltà totale” al lascito teorico dei due tedeschi fosse punto irrinunciabile.

Ma da molto poco a quasi nulla di quel ponte teorico portava esattamente dall’altra parte concreta dove pure si stavano svolgendo tumultuosi eventi di cui lui, pure, sentiva la prima responsabilità politica e storica. Deve aver sofferto non poco dilaniato tra fedeltà teorica e primato della prassi.

Mi debbo fermare qua. In verità la nota voleva parlare di altro intorno la stessa questione, ma sono cose complicate e quando le metti giù vai lungo anche solo per disegnarne un solo tratto. Ci tornerò in seguito, magari.

In linea più generale, nel mio studio, sono rimasto più e più volte colpito da una incredibile sequenza di ingenuità teoriche che si trovano nella storia dei marxismi occidentali. Un vero guazzabuglio di strade interrotte, ponti lanciati sul nulla, buche e paludi, circonvallazioni che non chiudono, strade senza uscita, contraddizioni, strane inferenze poggiate su cosa non si sa, cecità e sogni scambiati per fatti.

Ma ancora oggi, dopo un secolo e mezzo dall’inizio della teoria e almeno quattro-cinque decenni dal suo conclamato ed evidente fallimento nel cosiddetto “socialismo reale”, c’è una tale e spessa atmosfera emotiva di passione, di fondazione identitaria, di alto significato ideale-biografico, che risulta ancora difficile se non impossibile, trattare l’intera questione secondo fredda ragione. Soprattutto nella sfera pubblica e con certi interlocutori.

Tutto ciò anche se lo studioso, è il mio caso, non parte da posizioni critiche esterne, ma interne. Cioè, pur convenendo e concordando sulla prioritaria necessità di provare a cambiare lo stato delle cose, convenendo a concordando sull’XI Tesi interpretata alla luce della IIa, cosa fare di questa area teorica piena di macerie e tuttavia, spesso dai condivisibili intenti?

In senso storico, quindi alzandoci improvvisamente e di molto dalla contingenza, immagino quando tra qualche tempo chissà anni? decenni? spero non secoli, quando avremo una nuova speranzosa teoria che guidi i nostri desidèri di emancipazione umana e sociale ed avremo fatto pace con questo complesso teorico assumendone qualcosa, abbandonando finalmente altro, avendone la giusta distanza di ragione.

Ma quel tempo, il tempo dell’Aufhebung, dell’hegeliano superamento con mantenimento, non è ancora oggi sebbene proprio oggi la mancanza di una teoria generale di riferimento che illumini l’immediato “che fare?” si senta sempre di più immersi come siamo nel disperante e paralizzante “realismo capitalista”.

Chissà forse è proprio dal ridefinire cosa intendiamo con il termine ”capitalismo” ed il ruolo che la forma economia esercita nella forma sociale o nel non ruolo che non esercita la forma politica, che dovremmo cominciare.

A quel tempo, speriamo non troppo lontano, a questo complesso teorico potremo riconosce il primato di aver iniziato a porre agli esser umani il problema non più solo di subire il contingente e la storia passivamente, ma di cambiare sé stessi ed il mondo per trovare l’auspicato accordo, che sia di maggior giustizia o di doveroso adattamento a nuove condizioni del mondo o entrambe le cose.

Nella breve storia della civiltà umana un inizio e quindi, come tutti gli inizi, incerto e zoppicante. Ma come ogni inizio di processi che poi meriano sviluppo, anche pieno di speranze che, anche se inizialmente deluse, scopriremo poi hanno chiamato altri a raccoglierne l’intenzione.

* Ripreso da Pierluigi Fagan-Complessità

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