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Nel 1976 La Repubblica colmò un vuoto per la borghesia progressista, guidando la trasformazione del PCI da partito operaio a garante del riformismo capitalista. Oggi, con l’egemonia in crisi, i suoi opinion leader difendono guerra e spese militari, mentre lo Stato sociale si dissolve.
Il partito di regime: “La Repubblica”
L’irruzione sulla scena de “La Repubblica” nel 1976 colmò un vuoto di rappresentanza poiché la nuova borghesia progressista, laicizzata, affrancata dalla disillusione antropologica propria di un certo relativismo culturale, plasticamente rappresentato dalle pose della mondanità newyorkese ormai alleggerita dal peso della ribellione sessantottina, cercava disperatamente di conquistare lo Stato per disinnescare il legame tra democrazia e trasformazione sociale, così come immaginato dalla Costituzione repubblicana.
“La Repubblica” interpretò autenticamente il proponimento dello scrutatore di Italo Calvino, quando scorgeva nei chiaroscuri del Pci gli ideali di un grande partito liberale di massa. Magari da plasmare con la temperanza della compostezza massonica.
Il nuovo quotidiano, dunque, in quel momento così strategico, col Partito comunista in odore di sorpasso, iniziò a premere per una sua revisione di dottrina. La sclerotizzazione dell’organismo democristiano, ormai paralizzato nella ragnatela indolente del parassitismo burocratico, rese l’organizzazione comunista attrattiva per quei ceti borghesi determinati ad avviare il processo di modernizzazione delle istituzioni contemplato dai nuovi formulari del capitalismo.
Per realizzarlo occorreva allontanare definitivamente la sinistra dalla democrazia, spaccare ipotesi di alternativa e convogliare le energie del Partito verso l’orizzonte della governabilità.
La critica di poca dimestichezza con le regole inflessibili del classicismo economico nascondeva la fretta di integrare il Pci in un sistema da perfezionare con l’alternanza di governo così da renderlo, non solo partecipe, ma addirittura garante del riformismo capitalista incentrato sulla verticalizzazione del sistema istituzionale e sull’aziendalizzazione del processo amministrativo.
Il grande puntello argomentativo fu l’attacco alla partitocrazia e la questione morale quale contrassegno di elevazione etica dell’agglomerato sociale progressista. La costruzione politica di questa rinnovata egemonia non prevedeva la centralità delle rivendicazioni di classe o l’assunzione della cultura operaia nel cuore pulsante degli interessi strategici nazionali, ma il riferimento all’interclassismo meritocratico della società civile: quell’aggregazione professionale, sedotta dalle sirene del successo individuale, che “La Repubblica” intendeva rappresentare al meglio.
L’integrazione di questo tessuto sociale nel corpo militante del Pci, che pian piano iniziò a selezionare i propri quadri intermedi dal ceto medio istruito e non dalla classe operaia emancipata dalla lotta politica, iniziò a trasformare la militanza in una sorta di attivismo manageriale con sfumature elitarie.
La nuova linea prevedeva un disciplinamento della fabbrica e del movimento dei lavoratori, rendendo il Pci garante della politica sindacale dei sacrifici e delle mire espansionistiche della logica d’impresa che pretendeva un collegamento diretto tra costo del lavoro e produttività, in un’alleanza strategica tra sindacati, settori avanzati dell’industria e ceti medi produttivi. In questa fitta rete di rapporti il Pci si accreditò come forza di governo.
Progetto che diventò realtà nel 1992, solo sedici anni dopo la nascita de “La Repubblica”, quando l’ardore del nuovo perbenismo smantellò la repubblica dei partiti per avviare nel nostro paese la grande controriforma istituzionale in senso neoliberale capace di smantellare la Costituzione “troppo socialista”.
Il Partito, poi diventato democratico, fu totalmente incorporato dall’immaginario idealistico della borghesia progressista che iniziò a occupare il dibattito tramite una continua guerra culturale, da condurre esclusivamente su piani espressivi, contro i passatisti e con la creazione a tavolino di nuovi miti fondativi della cosiddetta sinistra civilizzata, tra i quali rientrava a pieno titolo una delle più grandi astrazioni narrative della storia: l’europeismo.
Oggi, con la crisi strutturale dell’impero statunitense, questa compagnia di potere, condensata tra le colonne del quotidiano romano, trema per la possibile perdita di stima sociale e reagisce con estrema ferocia.
I veri dirigenti della sinistra liberale, con buona pace dei segretari pro tempore del Partito democratico, sono i tanti Michele Serra sparsi tra i vari giornali, ormai prefabbricati secondo le istruzioni editoriali de “La Repubblica” e gli anchorman televisivi di grido che puntellano l’opinione pubblica grazie a un’occupazione mediatica militarizzata.
Sono tutti loro a rivendicare oggi la legittimità della guerra e, in quanto dirigenti di partito, indicono una manifestazione per riaffermare ciò che il potere ha già concesso loro. Spese per gli armamenti e dissoluzione definitiva dello stato sociale. Una parata di regime, insomma, alla quale manca solo l’esposizione estatica dei carrarmati in sfilata.
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