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L’ultimo sorriso: Sgarbi, Gassman e la sfida alla morte

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Vittorio Sgarbi, come Gassman, affronta la depressione di chi ha vissuto intensamente e ora si sente sopraffatto dall’inutilità. Ma la grande sfida è la dignità di chi sfida la morte con intelligenza e ironia, come Hitchens e Socrate: un sorriso finale, un ultimo atto di resistenza alla vita.

Sgarbi, Gassman e la sfida alla morte

La depressione di Vittorio Sgarbi ricorda tanto quella di Vittorio Gassman (che era però legata, a quanto pare, a un bipolarismo). Entrambi uomini vitali, che hanno lottato, che hanno amato (ricambiati), che hanno vissuto. Ma che, a un certo punto, vengono sopraffatti da un senso di inutilità proprio per questo: a cosa serve quest’ultimo brandello di esistenza se il tuo corpo ti abbandona e forse anche la mente non è più così lucida come un tempo?

L’amore per l’arte, l’inclinazione alla bellezza – quella della poesia per il Vittorio attore, e dei dipinti per l’altro (non così dissimile da quella delle donne cui ci si è dati) – sembrano non fare più testo, sembrano soccombere a questa insensatezza. E parliamo di uomini coraggiosi (Sgarbi è stato sempre impegnato in battaglie folli e sbagliate, diversamente da tanti intellettuali, anche più “titolati”, che si sono girati dall’altro lato, non hanno preso posizione, non si sa mai), ma evidentemente non è nemmeno questione di (difetto di) coraggio.

Non ci si può erigere a maestri, si dice. E si aggiunge: sono condizioni che devi vivere per parlarne (nel mio caso è ancora un po’ presto, avendo 14 anni meno di Sgarbi). Vero. Giusto. Però abbiamo anche altri esempi davanti a noi.

In un libro che da un po’ vado consigliando a tutti, ‘La storia da dentro’ di Martin Amis, si parla molto degli ultimi giorni dell’intellettuale americano trotzkista Christopher Hitchens (ateo ma – contraddittoriamente? – non nichilista). Ultimi giorni trascorsi “vivendo la morte” (per un cancro devastante), rifiutando un accovacciamento al suo cospetto.

Quella di Hitchens mi è sembrata la preparazione di un vero e proprio testamento, come se per quest’uomo fossero attimi che sarebbe stato perfino delittuoso sprecare, attimi in cui emerge la consapevolezza che noi non siamo la vita, ma ne portiamo pur sempre un’oncia e che, alla fine, quest’oncia non si perde, ma la trasferiamo ad altri.

Cos’altro era, se non un lascito agli altri – dunque un atto di generosità nei loro confronti e verso la vita – il sorriso che Hitchens dedica a una bambina nel suo ultimo incontro, dopo averle consigliato la lettura dei classici greci? (La bimba gli risponderà che li aveva già letti, e lui commenterà ridendo: “La faccenda si fa sempre peggiore, come con i maestri del Tempio davanti a Gesù ragazzino”).

Oggi che si parla così tanto di guerra – e Hitchens era un guerriero che ha condotto guerre giuste e guerre enormemente sbagliate (quelle di Bush) – si dovrebbe esaltare piuttosto questa guerra per la vita, da condurre ogni santo giorno. No, non è la solita insulsa e fastidiosa retorica delle frasi fatte dei media sul guerriero che sconfigge il cancro.

C’è chi perde le forze e la lucidità, e non ci si può fare nulla. E poi nessuno sconfigge niente: Socrate beve la sua cicuta, come la berremo tutti, prima o poi. Ma il greco lo fa sorridendo, per un attimo.

Ecco, quell’attimo è tutto. Il tocco finale alla storia che la riassume. Non conta meno del resto. Come un ultimo sorso, un’ultima pennellata (si crepa d’improvviso anche a 18 anni, in un incidente, e lì non ti è neppure concesso di darla, quella pennellata).

Ho letto anche che, nei giorni della degenza, Hitchens lesse molto e chiese alla moglie di portargli in ospedale Nietzsche e Chesterton. Sono scelte di lettura che potrebbero apparire bizzarre. Un ateo come Nietzsche (e come Hitchens) e un grande scrittore cattolico. Ma l’opposizione è apparente, se pensiamo alla fede per la vita del primo e all’ironia del secondo.

L’ironia è necessaria per vivere in maniera affermativa e vitale anche in quel momento lì, per sbattere in faccia alla morte tutta l’intelligenza e il gusto per la risata. Il senso di spossatezza, di esaurimento delle forze vitali, che sono proprie di una certa condizione, possono condurre alla depressione ma anche al superamento della soggettività.

Siamo un pezzetto del tutto, e la vita – non quella che, come dice Agamben, si è cercato di politicizzare e statalizzare dandone una definizione di Stato (decidendo quando c’è il “falso vivo” e la morte cerebrale, come se gli organismi potessero appartenere al potere pubblico) – la vita, piuttosto, come mistero eterno e inestinguibile, continua dopo di noi, come c’era già prima di noi.

E se abbiamo un modo per esserci ancora, può essere per mezzo di un sorriso.

 

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Mario Colella
Mario Colella
Garibaldino

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