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Il dibattito libero è morto: l’informazione mainstream si rivolge a sé stessa, disinteressata alla credibilità e ossessionata dal controllo del discorso. Una “verità ufficiale” rassicura l’élite del pensiero unico, mentre la società si depoliticizza.
L’industria della verità: la dittatura della conoscenza
Quotidianamente, e ormai da qualche anno, si assiste alla smaccata rappresentazione di un fanatismo informativo diffuso a reti unificate. Non è emerso con la crociata bellica occidentale, semmai la guerra ha esasperato una tendenza ormai sedimentata e sperimentata, allora in maniera grezza, ai tempi del dibattito sull’euro, in concomitanza con la mattanza sociale prescritta per il popolo greco.
In quei giorni il regime neoliberale comprese l’estrema pericolosità di un libero dibattito delle idee tra soggetti collettivi paritariamente accreditati nel sistema informativo, proprio perché quel sistema ideologico, un tempo capace di sedurre le masse con la promessa di un’emancipazione individuale connessa alla vita di mercato, cominciava a essere percepito in tutta la sua inverosimiglianza.
Eppure, nonostante quel sentimento di sfiducia nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa sia ormai capillarmente diffuso, gli agenti dell’informazione continuano imperterriti nel confezionare una realtà puramente virtuale, architettata tramite evidenti invenzioni narrative o grazie a smaccate omissioni storiche, arricchita da un dibattito pubblico, messo in onda senza soluzione di continuità, nel quale non emerge alcuna cura per un minimo senso del pudore.
Solo qualche giorno fa Enrico Mentana, digitalmente programmato agli ordini di scuderia, ha evitato di pronunciare il termine “coloni”, in un grottesco equilibrismo dialettico: “Sono persone che in Israele vivono i loro insediamenti come… in qualche modo…una vita di confine armato nei confronti della popolazione palestinese”.
Insomma, esiste un circuito professionale, quello dell’informazione, che sembra rivolgersi a sé stesso, poco preoccupato della perdita di credibilità sociale, ma anzi ansioso di sopravvivere nonostante il crollo della propria capacità di persuasione.
In realtà il mondo dei mass media non ha alcun timore di un mediocre indice di gradimento; la sua mission aziendale consiste nel rivolgersi a quel ceto appagato dalla percezione del ruolo sociale, minimamente istruito e affrancato da una rete di conoscenze in grado di valorizzare il proprio capitale umano, che ha estremo bisogno di una verità incontrastata, levigata, capace di rassicurare quell’euforia militante che vorrebbe scorrere sempre dalla parte giusta della storia.
Paradossalmente è un ceto che consuma ossessivamente programmi di approfondimento, talk show politici, che magari è anche iscritto a partiti o a movimenti, ma che contribuisce, più di ogni altro, alla spoliticizzazione della società.
Rappresenta a pieno titolo quello che Mark Fisher ha definito “edonismo depressivo”, postura che impagina un attivismo disimpegnato, collaterale al management inclusivo, sporadico nella sua istantaneità ma smanioso nel ricevere sollecitazioni ufficiali a difesa della buona società, in un impeto ottenebrato da un cieco fideismo.
Un “privatismo politico”, nella dizione di Anton Jäger, che concepisce l’azione pubblica solo nella misurazione e nella classificazione degli slanci affettivi, di una sana alimentazione depuratrice, della conflittualità orizzontale, dell’empatia con la natura e nella protezione di spazi in grado di promuovere una sorta di autoformazione subculturale dove imperversano saloni pseudo-letterari o vernissage museali accreditati dalla nobiltà mediatica degli organizzatori.
Questo galateo dell’attivismo postmoderno ha assoluto bisogno di una Verità ufficiale, di una versione dei fatti accreditata dal buon senso comune grazie alla quale si potrà argomentare gesticolando durante appaganti aperitivi nelle isole pedonali più frizzanti.
La società della conoscenza è sorretta da un apparato di educatori, da una burocrazia privata di divulgatori che preparano pedagogicamente l’individuo a un “saper essere”, chiave comportamentale per accedere a una socialità virtuosa, a impieghi elettrizzanti o all’elargizione della stima sociale misurata minuziosamente da un club professionale esclusivo, quello delle persone squisite.
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