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Gli influencer del dissenso: il modello “Repubblica”

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L’attivismo si trasforma in spettacolo: nei grandi eventi culturali, l’impegno si riduce a performance da influencer. “La Repubblica” e altri media amplificano un dissenso aziendalizzato, dove la visibilità individuale e il consenso digitale sostituiscono il dibattito collettivo.

Gli influencer del dissenso

A ogni vigilia di una grande kermesse letteraria, puntualmente “Robinson”, l’inserto pop de “La Repubblica” che disquisisce di cultura con i toni giusti per un’apericena stuzzicante, scarrella i propri influencer, le proprie celebrity, in un rodeo asfissiante di continui dibattiti dove, dalla letteratura alla filosofia, dalla politica alla saggistica comportamentale, tutti renderanno lustro ai grandi spazi nei quali, per consuetudine, svolazzano gli ultimi best-sellers.

Le star repubblichine sono ormai innumerevoli, spaziano in qualsiasi anfratto del sapere e occupano militarmente il campo perché non si disperda l’egemonia dell’attivismo effimero, dell’impegno autocentrato, ormai diventato canone di riferimento del minimalismo culturale di mercato e dell’individualismo ideologico.

Certo, si dirà, “La Repubblica” ha contribuito a definire, in questo Paese, la libertà data dall’accreditamento personale che ha sconfitto definitivamente il grigiore cupo, ingessato, delle strutture collettive, sclerotizzate da apparati elefantiaci incapaci di sprigionare la spigliatezza e il brio tipici dell’eccentricità carismatica; quindi non fa molto testo la riproposizione sistematica di panel a quattro sedie con le firme più popolari, così grate nel poter ricambiare la fama accordatagli con piccoli sermoni pedagogici a disposizione dell’illuminato pubblico sempre più progressista del più puro tra i progressisti.

Fa più specie se il medesimo schema è reinterpretato o, in qualche caso, ciclostilato da organizzazioni, da media che si prefiggerebbero di sconfiggere la malattia mentale dei nostri tempi; quella che eleva la visibilità personale o il capitale umano a razionalità sociale; che, insomma, diffonde la cultura neoliberale anche tra chi pensa di contestarne la struttura senza curarsi minimamente della sua capacità seduttiva.

Tanto ammaliante da colpire proprio tante realtà così sinceramente battagliere nei toni, nelle tematiche politiche, così fermamente convinte di essere portatrici di un tempo nuovo per gli esseri umani, per il popolo, per la classe, ma sì, forse anche per l’umanità intera.

La logica che permea queste organizzazioni, al contrario, è proprio quella aziendale, in una riproposizione stantia di quell’entusiasmo manageriale così in voga negli anni ’90, strano periodo in cui la vita si divideva tra gruppi di lavoro nei quali fomentare il cannibalismo reciproco tra esseri umani condito da ipocrite pacche sulle spalle; tra micro-riunioni nelle quali pavoneggiare efficientismo compulsivo e, in molti casi, dopato; tra grandi eventi concepiti per fidelizzare il brand in un entusiasmo artefatto e tra gruppi di autocoscienza per ritrovare un’autentica personalità, ormai sacrificata sull’altare della propria contraffazione prestazionale.

L’aziendalizzazione politica, dunque, ha molto a cuore il giudizio dei mercati sui propri contenuti, tutti rigorosamente post-prodotti, perché le lucine al neon del marketing confezionino un bene di consumo dalla facile fruibilità. Il media, appunto, non è neutro e non concepisce troppe spremiture di meningi.

Vuole affievolire la responsabilità dell’impegno con l’allestimento di un palcoscenico capace di attirare un popolo di consumatori curiosi. Il corpo marciante del nuovo attivismo è la community, che spazza via la vecchia comunità di militanti.

Quei vecchi arnesi che ancora si dilungano con assurdi sproloqui, ragionati, talvolta urlati, in umide sezioni dove i reumatismi nobilitano l’assenza di montaggi accattivanti.

Ma se questa è la missione aziendale appare del tutto scontato l’affidamento acritico al modello “La Repubblica”. L’impresa postmoderna si nutre con i like, con gli hype e con tanti altri inglesismi che indorano la confezione perché sia conquistato il prestigio nei mercati.

Per cui gli eventi sono concepiti sulla presenza di influencer, di coloro che apportano al progetto commerciale quel tanto di capitale sociale già fidelizzato nel gran bazar delle opinioni rappresentato dai social network.

La fonte di legittimazione, dunque, non è rappresentata dalle strutture collettive che selezionano, attraverso la militanza, i gruppi dirigenti, le competenze, i temi programmatici, ma dalle interazioni, dalla riconoscibilità individuale, dagli stratagemmi comunicativi dell’attivismo mondanizzato.

Questa professionalizzazione dell’attivismo è una riedizione della vecchia strategia elitista concepita a suo tempo dal Partito radicale, non a caso il partito neoliberale per eccellenza.

Attraverso “Radio Radicale”, quel partito diffuse campagne ideologiche a basso costo, che contribuirono a rimodellare la società italiana in senso individualista e mercatista, guidate da un’élite professionale che pian piano cominciò a bucare lo schermo.

In quel caso, però, natura del media e proponimenti ideologici coincidevano alla perfezione. Al contrario le nuove organizzazioni del dissenso dovrebbero disarticolare quella mentalità, quel buon senso comune nato con la rivoluzione neoliberale.

Risulta alquanto difficile però comprendere in che modo un’azione contro-egemonica possa svilupparsi quando la prassi politica è sovrapponibile a quella degli organi che diffondono con convinzione le “narrazioni” egemoniche.

Il rischio sta nella sottovalutazione della logica d’impresa quale elemento costitutivo dell’antropologia neoliberale. Quel tratto costitutivo dell’essere umano di mercato imprigionato dall’obbligo di prestazione.

Una filosofia ordinata da un continuo susseguirsi di eventi spettacolarizzati in grado di attirare le attenzioni di una fanzine, di curiosi ipnotizzati, di un pubblico acclamante di fronte alla vedette intellettuale di riferimento.

Tanto da diffondere la mentalità capitalista in luoghi a lei potenzialmente estranei e presentarla quale elemento di modernità. Un’argomentazione, a dire il vero, non proprio così originale, ma che da sempre ha in odio i partiti politici e le loro liturgie democratiche.

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Ferdinando Pastore
Ferdinando Pastore
"Membro dell'esecutivo nazionale di Risorgimento Socialista, ha pubblicato numerosi articoli di attualità politica incentrati sulla critica alla globalizzazione dei mercati e sui meccanism di funzionamento dell'Unione Europea. Redattore dell'Interfenreza e editorialista de Il Lavoro"

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