Il cosiddetto berlusconismo ha educato un intero spettro di esseri umani alla resilienza di fronte allo sfruttamento, all’ammirazione per la performance purificatrice e alla definitiva confusione tra creazione artistica e spirito d’iniziativa.
Berlusconismo e antiberlusconismo
Silvio Berlusconi è apparso politicamente un attimo dopo la svolta liberale del 1992. Una volta firmato il Trattato di Maastricht e avviata così la normalizzazione tecnocratica delle istituzioni, con i suoi vincoli di mercato, il Cavaliere fu ospite da subito indesiderato per le sobrie consorterie neoliberali.
Non di certo per la sua programmazione politica, del tutto coincidente con i proponimenti della nuova Costituzione economica che andava a soppiantare l’impianto socialdemocratico di quella italiana, né per la sua cultura; anch’essa si era già dimostrata equivalente al modello del cittadino/consumatore proprio del nuovo corso sovranazionale.
Ciò che lo rendeva indigesto era una sua grossolanità caratteriale, una sua preponderanza ridanciana rispetto alla serietà dei pallottolieri che indicavano lacrime e sangue per la popolazione; così pigra da “vivere al di sopra delle proprie possibilità”. Questo il refrain dell’epoca.
I burocrati oltreconfine sottovalutavano un aspetto, allora poco prevedibile. La diffusione del berlusconismo italiano è stata decisiva perché la stretta sui conti pubblici, i tagli alle spese sociali, le privatizzazioni selvagge dei complessi strategici dello Stato potessero essere digeriti anche dalle classi popolari. La dottrina di mercato aveva bisogno, perché si espandesse capillarmente, di una didattica sui comportamenti individuali.
Berlusconi iniziò la nostra Repubblica alla mentalità aziendale. Forte del suo prestigio di uomo del fare, avvezzo nel presentarsi come un malizioso avventuriero comprese prima di tutti che quel modello mercantilistico necessitava di un aggiornamento lessicale nella gestione della grammatica politica. Il decisionismo del gretto padroncino ebbe così una sua rivalutazione sociale.
Da simbolo della cafoneria avvolta dalla nebbia padana si tramutò in piglio adatto per azzerare le impervie diramazioni del politichese, delle correnti di partito, delle convergenze parallele.
L’Italia si scopriva un laboratorio del sondaggismo; vinsero il maggioritario, il messaggio semplificato, la cultura d’appendice introspettiva e appagante, il battutismo irriverente e anche un po’ fascista, le esperienze rigeneranti nelle saune a buon mercato. I chiaroscuri, le masse, i sottintesi, i conflitti e i marxismi venivano sotterrati da una pena inappellabile: tutto svogliato passatismo.
Alle istituzioni in stile aziendale servivano i produttori, gli imprenditori, i cacciatori di prestigio. Lo stile berlusconiano era simmetrico al richiamo per la modernizzazione verticistica dello Stato. Tanto che riuscì a modellare a sua immagine e somiglianza i propri avversari.
Berlusconi è riuscito anno dopo anno a plasmarli e a farsi inseguire nella conduzione privatistica della politica. In un’escalation repentina ha convinto i progressisti ‒ allora intenti nel predicare stanchi rituali manieristici in piazze dove al conflitto sociale sostituivano l’indignazione borghese per l’assenza di presentabilità altrui ‒ a farsi prima ditta laboriosa, ad abbeverarsi nel rampantismo giovanilistico della rottamazione e infine, cronaca di questi mesi, ad affidarsi al gergo dell’individualismo silicononiano delle start up, con il suo ultra-capitalismo parassitario ma tanto civilizzato.
Quello che non crea innovazione né posti di lavoro ma educa un intero spettro di esseri umani alla resilienza di fronte allo sfruttamento, all’ammirazione per la performance purificatrice e alla definitiva confusione tra creazione artistica e spirito d’iniziativa, tratto distintivo di chi possiede la patente del meritevole. Quindi a un berlusconismo meno pasticcione e più chirurgico nei suoi intenti classisti.
Qui risiede il paradosso degli ultimi trent’anni. L’anti-berlusconismo si è nutrito del berlusconismo, lo ha talmente digerito da renderlo oggi manifesto antropologico per chi si propone di vivere con grazia nel sistema della concorrenza.
Lo ha aggiornato e ammodernato trasformandolo in filosofia dell’esistenza, del saper stare al mondo. Velocità d’esecuzione, vivere il presente, non curarsi degli altri, capitalizzare la socialità, mercificare i desideri oggi appaiono come salutari proponimenti della manualistica progressista. Un cortocircuito logico nascosto nei sotterranei delle richieste politiche d’inclusione.
Quelle lotte post-moderne dove ci si batte perché sia riconosciuto il diritto nell’essere tutti capitalisti con pari dignità. Non a caso tanto affascinanti per i grandi sponsor multinazionali. Un mondo pacificato nel quale ogni buon cittadino potrà sognare un giorno un’essenza di vita berlusconiana.
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