Per i puristi è il jazz manouche, uno degli stili sviluppati da Django Reinhardt, in cui l’antica tradizione musicale gitana si fonde con il jazz americano: parliamo del gypsy jazz e Moreno Viglione ne è uno dei massimi interpreti in Italia.
Parliamo di un vero talento della chitarra: compositore, arrangiatore, solista, sessionman che ha lavorato per artisti come Patty Pravo, De Gregori, Fabrizio Moro e tanti altri. Negli anni ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e radio di successo, tra cui Webnotte, Edicola Fiore e Stai Serena.
Moreno Viglione, la musica, il gypsy jazz
Moreno come nasce questa tua grande passione per la musica?
A casa: mio padre suonava la chitarra e mia nonna il piano. La mia prima passione è stata per Hendrix ma anche per Bach, mi piaceva la musica classica e il rock. Mi sono avvicinato agli strumenti musicali con l’organo.
Ho cominciato a suonare da autodidatta, prima il pianoforte e la tastiera intorno ai nove anni, e poi la chitarra a dodici. Poi provai ad andare a lezione di pianoforte, mi si presentò un percorso didattico che partiva dalle basi mentre io già suonavo, ero piccolo e mi passò la voglia di suonare tale strumento, così cominciai a studiare autonomamente e in modo sempre più approfondito la chitarra.
Tuo padre è un liutaio, da sempre hai vissuto insieme ad un sacco di strumenti musicali, in particolare chitarre. È stato lui a trasmetterti l’amore per la chitarra?
Probabilmente sì, non solo per la chitarra ma anche per la musica in generale, ma non direttamente, diciamo che mi ci sono ritrovato. Io ho due figli e con loro non ho mai insistito a tal proposito, ma, nonostante ciò, loro suonano e amano la musica. Certamente l’ambiente influisce…è normale che crescendo in una casa dove la musica è sempre presente, ci si avvicini più facilmente.
Quando hai deciso di diventare un musicista professionista?
Questa è una cosa che non ho mai deciso. Quando ero ragazzino e suonavo la chitarra, non ho mai pensato che da grande avrei fatto il musicista: all’epoca suonavo per me stesso. Comunque sia, avendo cominciato da autodidatta, capii che, per ottenere dei risultati, dovevo prenderla con serietà. Cosicché oltre ad assecondare una passione, l’impegno mi servì per disciplinare la mia vita.
Più avanti, ho cominciato a suonare in un po’ di gruppi. A 16 anni gia lavoravo con gruppi di gente che aveva almeno 20 anni di più. Mi ci sono trovato dentro perché ero disponibile e abbastanza bravo quindi venivo chiamato spesso.
Com’è il tuo rapporto con i generi musicali?
Come formazione, ho cominciato col rock blues rock anni ’60-’70, da Hendrix ai Led Zeppelin. Verso i 15 anni, suonavo i Deep Purple e dei Led Zeppelin conoscevo tutti i pezzi a memoria. In seguito, approcciandomi alla musica leggera e pop che da ragazzino ripudiavo, mi sono accorto di quanto fosse difficile questo genere, perché si entra in un mondo con un ruolo diverso, quasi orchestrale, e bisogna lavorare con molta più disciplina.
Poi, per quanto riguarda gli altri generi, è successo perché ho ascoltato e ascolto tanta musica diversa e perchè per lavoro ho dovuto approfondire diversi stili. Ho suonato tanti anni Blues sia acustico che elettrico, il Country, il Funk con diversi cantanti e musicisti, ho studiato il Jazz, dal be bop degli anni ’40 a quello più moderno e, in quel periodo, ho scoperto Django Reinhardt e il Gypsy Jazz a cui mi sono appassionato e mi sono buttato a capofitto in quello stile.
C’è un genere più difficile?
Tutto è difficile e facile allo stesso tempo, ogni genere ha le sue prerogative. Personalmente vado a periodi, nel senso che se suono tanto la chitarra acustica, poi ho voglia di suonare quella elettrica e se faccio troppo jazz, poi preferisco suonare rock. Questa cosa mi ha sempre spinto ad approfondire stili diversi. Negli anni ho approfondito lo studio della teoria musicale, e con l’esperienza ho capito che la musica è una sola, e quello che fa la differenza è lo studio del linguaggio di ogni stile.
Vai mai a vedere concerti?
Meno di quanto vorrei, perché facendo concerti per lavoro spesso sono su un altro palco. Non amo particolarmente gli spettacoli troppo lunghi, una ventina di anni fa, mi è capitato di vedere Pat Metheny in concerto a Pisa, ma per quanto mi piacesse ha suonato tre ore e mezza ed io dopo un’ora ero già esausto. Dopo un concerto così lungo, per un po di tempo non sono andato a vedere più nessuno…Mi ha distrutto!
Sei un turnista, hai collaborato e suonato con un sacco di artisti dal rock al blues, al pop al jazz: Patty Pravo, Mimmo Locasciulli, De Gregori, Fabrizio Moro, Capuano: come ti trovi a collaborare nei progetti degli altri?
Si, ho suonato con parecchi artisti diversi per periodi più o meno lunghi, sia live che in studio. Per molti anni ho concentrato buona parte del lavoro in quella direzione . In quel tipo di lavoro sono molto esigenti. Comunque sia, se uno è preciso e disponibile, ma allo stesso tempo non si prostra alla corte di certi personaggi, riesce ad avere la stima da parte degli altri e a lavorarci alla pari.
In questo lavoro si possono trovare persone piuttosto carismatiche, e mi sono reso conto parecchie volte che se l’artista con cui sto lavorando ha voglia di fare la serata, tutto va bene e la serata vola, altrimenti, tutto diventa faticosissimo. Negli ultimi anni ho cercato di assecondare la mia attitudine a improvvisare e comporre e ho affiancato al lavoro progetti più artistici e appaganti.
Serve una buona memoria?
Sì, la memoria è necessaria ma dipende dalle situazioni, dal tipo di palco e di ruolo. Quando memorizzi delle cose ti puoi staccare dai pezzi di carta, altrimenti devi tenere continuamente gli occhi sullo spartito. In certe situazioni la memoria è fondamentale e richiesta, ad esempio in uno show rock, dove non ti puoi permettere di guardare i fogli come se stessi in un’orchestra.
Fra tanti artisti famosi qual è quello con cui ti è piaciuto di più lavorare e quale meno?
Questa è difficile, non saprei, me ne sono piaciuti tanti… Col fatto di Web Notte “La Repubblica”, ne ho conosciuti tantissimi coi quali mi sono trovato bene e con altri meno. Mi è successo di emozionarmi nel suonare bei pezzi, scritti con gusto da diversi artisti, mi vengono in mente Enrico Ruggeri, Malika Ayane, Elisa, Massimo Ranieri, Noemi, Carmen Consoli, Mario Venuti e tanti altri.
Sei considerato un virtuoso, quante ore al giorno passi a suonare la chitarra?
Negli ultimi anni sono diventato meno costante rispetto a prima, avendo avuto una vita intensa. Non sono mai stato a casa sui libri, però ho studiato tantissimo, anche otto dieci ore al giorno tutti i giorni per diversi anni a ondate. Per un paio d’anni, ho studiato dalle dieci di mattina fino alle quattro del pomeriggio, per sei giorni a settimana e in più insegnavo il pomeriggio e suonavo la sera.
Quando ti piace una cosa il tempo passa in fretta. Adesso faccio molto meno, nel senso che non ho più quella costanza, anche perché fortunatamente ho raggiunto un livello tecnico che mi permette di riprendere l’allenamento in pochi giorni. Quindi la tecnica per fortuna rimane, grazie ad un background di anni e anni di studio.
La tua band è Rossomalpelo e poi ci sono i tuoi progetti solisti…
Suono nei Rossomalpelo da tanti anni. Con Sergio Gaggiotti siamo amici e condividiamo anche uno studio. All’epoca Carletto, Carlo Conti, il mio amico sassofonista mi coinvolse nel progetto, purtroppo, non me ne faccio ancora una ragione, è venuto a mancare improvvisamente la scorsa primavera.
Con la mia entrata nel gruppo, anni fa, le chitarre sono diventate gypsy e, di conseguenza, il gruppo si è adattato a questo stile. Siamo stati tra i primi in Italia a utilizzare quelle sonorità. Ho sempre scritto i pezzi per i gruppi in cui suonavo e poi avuto delle situazioni mie solistiche. Nel 2010 ho fatto il primo disco che è uscito per un’etichetta, in seguito, ne ho incisi diversi a nome mio.
Che ricordi hai del periodo delle tournèe?
Le tournèe italiane non sono più come quelle degli anni ’80 che mi raccontavano i miei colleghi più grandi, in cui si stava fuori anche per venti giorni di fila. Da qualche anno, le cose sono cambiate e invece di cento serate d’estate, se ne fanno quaranta in tre mesi, stando fuori tre o quattro giorni per volta. All’estero sono stato diverse volte, ma non mi capita di frequente; sono andato in Inghilterra, Germania e Francia per cose estemporanee di 4-5 date.
In seguito, ho fatto dei lavori in teatro, ma non era per me: sempre la stessa routine per un mese. Dopo qualche giorno, per noia avevo la necessità di iniziare a leggere come se non l’avessi mai fatto prima. Diciamo che la situazione dove sono più a mio agio è sul palco in trio: l’attenzione che gli dedico è quella giusta, nelle cose troppo ripetitive mi annoio e fatico il doppio a restare concentrato, è una questione di attitudine.
Quando c’è da provare una chitarra nuova chiamano te. Qual è il tuo modello di chitarra preferito?
Mi piacciono un po’ tutte, elettriche, acustiche, anche gli altri strumenti a corda, ma se dovessi portarne una sulla famosa isola deserta, porterei la Fender Stratocaster.
Se ti chiamasse un gruppo famoso per andare in tournée che cosa faresti?
Ci dovrei pensare e forse andrei a malincuore. Fondamentalmente non so se lo farei, in un certo senso ho avuto le mie soddisfazioni e adesso preferisco tenere un profilo basso e fare quello che mi piace. In questo periodo non suonando più dal vivo, per causa di forza maggiore, ho indirizzato la mia attività verso la composizione e al lavoro in studio.
Volente o nolente, il tempo è occupato. Però, devo dire che il palco mi manca proprio… Nell’immaginario collettivo, uno suona uno strumento perché vuole andare a suonare live e il non poterlo fare è veramente triste.
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