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Le abbuffate durante le festività, come Natale e Capodanno, rappresentano un esempio perfetto di come la relazione con il cibo possa diventare complessa e problematica.
Ci sentiamo entusiasti all’inizio, ma a distanza di giorni o settimane, molti di noi potrebbero pensare due volte prima di rifare lo stesso percorso alimentare.
C’è una spiegazione scientifica di questo fenomeno: i grassi, in particolare i trigliceridi, hanno un impatto diretto sull’attività neuronale, riducendo la comunicazione tra le cellule e influenzando la nostra percezione e reazione al cibo.
La dopamina nel sistema di ricompensa*
Per comprendere il legame tra cibo e cervello, è essenziale parlare del sistema di ricompensa. Questa rete di strutture cerebrali si attiva quando svolgiamo attività legate alla nostra sopravvivenza, come mangiare.
Il cibo, soprattutto quello ricco di zuccheri e grassi, stimola il rilascio di dopamina, un neurotrasmettitore cruciale per la sensazione di piacere. È lo stesso meccanismo che si attiva in altre dipendenze, come quelle da droga o alcol.
Il cervello, quindi, si abitua a cercare costantemente comportamenti che rilasciano dopamina, incentivando il consumo di cibi altamente gratificanti.
Ci sono alimenti, come una mela, che causano un rilascio moderato di dopamina, e altri, come il cibo spazzatura, che ne rilasciano enormi quantità. Questo stimola il cervello a desiderare sempre più questi alimenti, creando una sorta di dipendenza.
Adattarsi a queste stimolazioni può portare i comportamenti legati all’ossessione per il cibo, come l’abbuffarsi o il mangiare compulsivo, ad alterare i meccanismi neuronali e indurre a disturbi alimentari come obesità e anoressia.
Alterazioni cellulari
Alcune malattie metaboliche, come l’obesità, causano un vero e proprio rimodellamento delle sinapsi. Ad esempio, nelle persone affette da disturbo compulsivo alimentare, si osserva una riduzione significativa dei recettori per la dopamina, in particolare i recettori D2.
Questi recettori sono fondamentali per la regolazione del piacere e della ricompensa; la loro diminuzione porta a una maggiore difficoltà nel sentirsi appagati, spingendo a consumare ancora più cibo per raggiungere la stessa sensazione di gratificazione.
Un altro elemento interessante che emerge dagli studi riguarda il ruolo dei polimorfismi genetici, come quelli legati al gene ANKK1, che appare alterato nelle persone con obesità o altre dipendenze.
Questo suggerisce che le dipendenze, siano esse alimentari o legate a sostanze, potrebbero avere una base genetica comune.
I grassi e il cervello
Tradizionalmente, si pensa che i grassi vengano semplicemente immagazzinati nel tessuto adiposo, ma in realtà essi giocano un ruolo fondamentale anche nel cervello.
Le membrane cellulari sono costituite da fosfolipidi, e alcuni lipidi hanno addirittura funzioni di mediazione all’interno del sistema nervoso. Ad esempio, gli endocannabinoidi, derivati dai lipidi, agiscono legandosi ai recettori dei cannabinoidi nel cervello, modulando le risposte neuronali.
Un aspetto particolarmente innovativo degli studi di Gangarossa riguarda il ruolo dei trigliceridi. Si è scoperto che non sono solo depositati nel tessuto adiposo, ma che possono essere utilizzati anche dai neuroni.
Questo è un campo di ricerca relativamente nuovo, ma affascinante: i trigliceridi sembrano influenzare direttamente l’attività neuronale attraverso un processo di idrolisi locale che riduce la comunicazione tra le cellule.
È lo stesso meccanismo che spiega la “pigrizia” che molti sentono dopo un’abbuffata: l’attività cerebrale diminuisce, rendendo il sistema nervoso meno reattivo.
L’impatto delle ‘abbuffate’
Durante le festività, quando ci concediamo cibi ricchi di zuccheri e grassi, il nostro cervello subisce alterazioni temporanee. Dopo un’abbuffata, i trigliceridi riducono l’attività neuronale, portando a una comunicazione più lenta tra le cellule.
Questo potrebbe spiegare la sensazione di letargia e il rallentamento mentale che molti sperimentano dopo pasti abbondanti. Tuttavia, la vera sfida scientifica è capire se questi effetti siano temporanei o se, in casi di ipertrigliceridemia cronica, il cervello rimanga permanentemente alterato.
Gli studi sul lungo termine sono ancora in fase di sviluppo, ma l’ipotesi è che un’esposizione cronica a cibi ricchi di grassi e zuccheri possa portare a modificazioni durature nel cervello, alterando il modo in cui percepiamo e reagiamo al cibo. Questo aprirebbe la strada a una maggiore comprensione dei disturbi alimentari, come l’obesità o il diabete di tipo 2, e delle loro radici neurologiche.
Una delle principali sfide per la conoscenza della nostre salute è comprendere come intervenire sui meccanismi cerebrali per prevenire o curare le dipendenze alimentari.
La questione fondamentale è se un soggetto possa tornare a un rapporto normale con il cibo dopo aver sviluppato una dipendenza.
* Grazie alla Dott.ssa Anna Cocca per il contributo scientifico alla stesura dell’articolo
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