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Tra presunte ingerenze straniere, accuse di brogli e un clima politico infuocato, il Paese balcanico si avvia al ballottaggio con una scelta cruciale: tra nazionalismo anti-occidentale e riformismo filo-europeo.
Romania, Simion guida il primo turno delle presidenziali
Un nuovo terremoto politico scuote la Romania. Al primo turno delle elezioni presidenziali “bis” — convocate dopo l’annullamento del voto di novembre per presunte gravi irregolarità mai realmente chiarite — è emersa una tendenza chiara: l’ascesa inarrestabile del nazionalismo radicale. George Simion, leader del partito ultraconservatore Aur e figura politicamente vicina a Donald Trump e alla distensione coi rapporti cona Russia, ha ottenuto il 40,5% dei consensi, ponendosi in netto vantaggio rispetto agli altri candidati.
Il suo diretto avversario al ballottaggio sarà Nicușor Dan, sindaco indipendente di Bucarest e volto moderato del campo europeista, fermo al 20,9%.
Una performance che rappresenta molto più di una vittoria elettorale: è il segno di una deriva politica sempre più marcata all’interno dell’Unione Europea.
Simion, tra anti-NATO, Georgescu e nostalgie d’ordine
Simion ha fatto della rottura con Bruxelles e Washington il suo cavallo di battaglia. Si oppone apertamente alla NATO, rivendica un sovranismo autoritario e si è presentato al seggio con Calin Georgescu, il candidato presentato dai media come ‘filorusso’ che aveva vinto le contestate elezioni di novembre, poi annullate dalla Corte costituzionale. Quest’ultima lo aveva estromesso per “sospette ingerenze russe” veicolate soprattutto attraverso TikTok, in un contesto di disinformazione ibrida. Un’accusa parsa particolarmente debole per annullare un risultato elettorale.
“Siamo qui con una sola missione, il ripristino dell’ordine costituzionale, il ripristino della democrazia” ha dichiarato Simion, lasciando intendere che, in caso di vittoria, potrebbe affidare proprio a Georgescu il ruolo di primo ministro.
Governo e partiti tradizionali sconfitti
Il grande sconfitto del primo turno è il blocco di governo, con il candidato Crin Antonescu (alleato dell’attuale maggioranza) relegato al terzo posto con il 20,3%. È la seconda batosta consecutiva dopo le elezioni di novembre, e dimostra l’incapacità dell’establishment romeno di proporre un’alternativa credibile in un contesto di crescente polarizzazione.
L’affermazione di Simion arriva, non a caso, in un Paese dove la disillusione verso le élite europee e i partiti storici è ai massimi storici, complice anche un deterioramento sociale acuito da anni di austerità e scandali.
La diaspora sposta gli equilibri?
Una delle incognite principali resta il voto estero. Quasi un milione di romeni ha votato dall’estero nei tre giorni riservati alla diaspora, un dato record. Tradizionalmente, la diaspora tende a favorire i candidati filo-europei, ma l’affidabilità degli exit poll è fortemente compromessa: circa il 50% degli elettori ha rifiutato di dichiarare la propria scelta. È lo stesso fenomeno osservato nel novembre 2024, quando la discrepanza tra exit poll e risultati reali contribuì alla delegittimazione del voto.
Romania, specchio delle contraddizioni europee
Il voto romeno è una cartina di tornasole per tutta l’Europa. In un Paese frontaliero con l’Ucraina, che confina con le faglie geopolitiche più calde del continente, la possibilità di una presidenza apertamente ostile all’Unione e alla NATO apre scenari di grave instabilità.
Ma è anche il sintomo di un fallimento collettivo: delle élite europee incapaci di intercettare il disagio, dei governi locali corrotti o inefficienti, dei media troppo spesso subordinati alle logiche di potere.
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