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Kamala Harris segna la storia americana conquistando il suo posto come vicepresidente di Biden, in questo 2020 irrequieto. Cosa potrà significare per l’America?
Chi è Kamala Harris
Classe ’64, Kamala incarna l’integrazione etnica: madre indiana, padre giamaicano, marito ebreo.
Nelle interviste racconta che i genitori, entrambi attivi nel movimento per i diritti civili, la portavano alle marce di protesta pacifica quando ancora lei era nel passeggino. Lei stessa si definisce una guerriera felice e forse non potrebbe essere diversamente vista la famiglia da cui viene. La madre era una ricercatrice oncologica, specializzata in cancro al seno, il padre professore emerito di economia alla Stanford University; il nonno lottò per l’indipendenza e la nonna era un’attivista.
I suoi si separano quando lei ha 7 anni, nei weekend va a trovare il padre a Palo Alto e qui i bambini del vicinato escludono lei e la sorella dai giochi perché di colore.
Persino il suo nome sembra preannunciarne un destino, Kamala infatti è un altro nome per la Dea Lakshmi, importante dea dell’induismo, religione che venera tanto gli uomini quanto appunto le donne.
Agiografia kamaliana
Le cronache piuttosto agiografiche del periodo, raccontano che fin da giovane Kamala manifesta la forte volontà a proteggere verità e giustizia. Capisce presto che la passione che lei e la sua famiglia hanno sempre portato in strada nelle manifestazioni può acquisire un valore reale, un coefficiente di utilità, se portata nelle aule di tribunale.
Vuole denunciare la cattiva reputazione di molti procuratori e cambiare il sistema dall’interno. Per questo si laurea alla Howard University, il prestigioso Black college di Washington, e poi frequenta la Law School a San Francisco. Nel 1990 diventa avvocato ed entra nell’ufficio del procuratore di Oakland.
Nel 2003, a soli 38 anni, diventa procuratore distrettuale a San Francisco e nel 2010 è procuratore generale della California, segnando la storia, come prima donna afroamericana-asiatica. In questi primi anni Kamala dimostra subito il suo forte carattere: i tassi delle condanne salgono del 14%.
Nel 2016 entra al senato, e nel 2017 si fa notare di nuovo: con la durissima interrogazione a Jeff Sessions nell’inchiesta Russiagate.
Due candidate vicepresidente fallirono prima di lei – Geraldine Ferraro e Sarah Pallin, candidata insieme al repubblicano John McCain. Kamala stessa criticò Biden nel 2019 accusandolo di lavorare insieme ad alcuni senatori segregazionisti, ma poi lui, forse anche in virtù dell’amicizia tra la Harris e il defunto figlio di Joe – Beau Biden – le propone questa corsa insieme.
Accoppiata su cui lui punta molto, visto che il nome Harris troneggia vividamente nel logo stesso della corsa alla Casa Bianca di Biden, subito sotto il suo.
L’arma segreta anti Trump
Se da un lato Kamala Harris ha il merito di aver abbattuto quel muro invisibile che ha impedito alle donne di entrare alla Casa Bianca dalla porta principale, dall’altra è la candidata ideale per l’establishment centrista del partito dell’asino che si dimostra ancora saldamente al comando: ideologicamente molto malleabile, scaltra, adattabile, perfetta per accompagnare un vecchio squalo moderato come Biden e con una reputazione da dura in controtendenza col clima anarcoide diffuso nelle strade del paese.
La sua esperienza come pubblico ministero l’ha resa ideale per un’elezione vissuta tra enormi problemi di ordine pubblico, com’è stata questa contro Trump.
La sua etnicità è il paravento per il gioco dei due forni: da una parte concedere aperture alla domanda libertaria dell’elettorato democratico, dall’altra tranquillizzare la maggioranza spaventata conservatrice.
È l’ennesima vittoria della politica identitaria sulla politica delle idee.
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