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I Balcani sono da sempre una polveriera geopolitica, dove le vittorie a metà si trasformano in sconfitte amare. Il recente risultato elettorale in Kosovo, con la sconfitta di fatto del premier Albin Kurti, evidenzia non solo la fragilità interna della regione, ma anche il ruolo strumentale che il paese ha avuto e continua ad avere nella strategia della NATO contro la Serbia.
Il Kosovo: un avamposto della NATO nei Balcani
L’intervento della NATO nel 1999 ha segnato l’inizio di un nuovo capitolo nella geopolitica balcanica, con il Kosovo trasformato in un avamposto occidentale a scapito della Serbia.
Da allora, la presenza militare e politica degli Stati Uniti e dell’Unione Europea è stata determinante nel consolidare un’entità statale che continua a essere riconosciuta solo parzialmente a livello internazionale.
Pristina, fortemente dipendente dal sostegno occidentale, ha adottato una politica costante di provocazione nei confronti della minoranza serba, aggravando le tensioni etniche e rendendo impraticabile una vera normalizzazione dei rapporti con Belgrado.
Albin Kurti e la politica della provocazione permanente
Il premier kosovaro uscente Albin Kurti è da sempre una figura controversa. Già durante il conflitto jugoslavo, la sua retorica nazionalista si affiancava alle azioni dell’UÇK (Esercito di Liberazione del Kosovo), un gruppo che ottenne la vittoria grazie ai bombardamenti NATO sulla Serbia.
Oggi, nonostante il crollo del sostegno popolare e il crescente isolamento internazionale, Kurti continua a rilanciare l’idea della “Grande Albania”, un progetto che spaventa non solo Belgrado, ma anche le stesse potenze occidentali, consapevoli del rischio di instabilità che esso comporta.
La retorica aggressiva di Kurti ha contribuito a isolare il Kosovo, persino agli occhi degli Stati Uniti. L’ex inviato americano per il Kosovo e la Serbia, Richard Grenell, ha definito “deliranti” le affermazioni di Kurti riguardo ai rapporti privilegiati con Washington, segnalando un evidente cambiamento nella posizione americana.
Questa freddezza da parte degli alleati storici si somma a una crisi economica profonda: disoccupazione endemica, emigrazione di massa (con circa due milioni di kosovari all’estero) e un malcontento crescente tra i giovani, che si sono progressivamente allontanati dal leader nazionalista.
La questione serba e le tensioni etniche
Nonostante gli accordi di Bruxelles del 2013 tra Belgrado e Pristina, il Kosovo ha sistematicamente ostacolato la creazione dell’Associazione dei Comuni Serbi, un organismo che avrebbe garantito un’autonomia minima alla minoranza serba.
Al contrario, le provocazioni si sono moltiplicate, culminando nella decisione di chiudere nove filiali delle Poste Serbe in Kosovo lo scorso agosto, una mossa unilaterale che ha ricevuto la condanna della stessa Unione Europea.
Per la popolazione serba locale, questi atti rappresentano una strategia deliberata per rendere impossibile la loro permanenza in Kosovo, in una logica di lenta espulsione demografica.
Uno dei punti nevralgici delle tensioni etniche in Kosovo è il ponte sul fiume Ibar, che divide la città di Mitrovica tra la comunità serbo-ortodossa e quella albanese-musulmana. La recente decisione di Pristina di forzare la riapertura del ponte ha scatenato nuove proteste e polemiche.
Nikola Kabasic, ex giudice serbo dimessosi nel 2022, ha denunciato che la chiusura del ponte era stata una misura necessaria per evitare ulteriori episodi di pulizia etnica, come quelli del 1999 e del 2000.
La sua riapertura forzata, invece, rappresenta un ulteriore tentativo di Pristina di consolidare il proprio dominio su tutto il territorio kosovaro, senza alcun rispetto per la minoranza serba.
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