È chiamato gender gap, si tratta delle differenze tra uomini e donne nel mercato del lavoro: cosa dicono i dati recenti?
Gender gap: le donne frenate da una disparità di legittimazione sul lavoro.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali…
Inizia così l’articolo 3 della Costituzione, che sancisce l’uguaglianza di tutti gli individui, in primis tra uomini e donne. E, dal momento che non è sufficiente dichiarare una cosa affinché essa si verifichi, vi è un secondo comma, quello dell’uguaglianza sostanziale, il quale stabilisce che, qualora vi siano differenze di ordine economico e sociale, che impediscono lo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, lo Stato deve intervenire per eliminarle.
Il principio di fondo è che situazioni uguali devono essere trattate nello stesso modo, situazioni differenti, in modo differente. Prova ne è, ad esempio, l’articolo 37, che dopo aver affermato che la retribuzione tra uomo e donna deve essere uguale – in quest’ottica, è allo studio una proposta della Commissione Europea che prevede che i datori di lavoro con almeno 250 dipendenti rendano pubbliche le informazioni sul divario salariale – aggiunge che la donna deve essere tutelata, in modi diversi da quelli previsti per gli uomini, per ovvi motivi biologici, per consentirle l’adempimento della sua essenziale funzione familiare.
In questi anni sono stati fatti notevoli passi avanti per ciò che riguarda l’uguaglianza di genere, ma in ambito lavorativo permangono differenze ancora troppo grandi. L’ultimo rapporto sul lavoro dell’ISTAT, relativo al terzo trimestre 2020, segnala un divario tra uomini e donne, oltre che in termini di tasso di disoccupazione, anche in termini di tasso di occupazione e di inattività.
Il tasso di occupazione 15-64 anni, ovvero il rapporto tra le persone che lavorano e il totale degli individui compresi in quella fascia d’età, ci mostra che solo la metà delle donne – contro i due terzi degli uomini – ha un’occupazione. Questo indicatore va incrociato con il tasso di inattività 15-64 anni, ovvero la percentuale di individui che potrebbero lavorare, ma scelgono di non farlo: per gli uomini è il 26%, per le donne è quasi il doppio, circa il 45%. Una possibile spiegazione per tali disparità potrebbe essere lo scoraggiamento, un fenomeno
che si verifica sul mercato del lavoro, soprattutto in corrispondenza di fasi di contrazione della domanda, che porta alcuni individui disoccupati a interrompere l’attività di ricerca dell’impiego. In periodi recessivi, infatti, i posti disponibili sono probabilmente poco attraenti, sia per aspetti retributivi sia per condizioni lavorative, e il loro ottenimento richiede lunghi e costosi processi di ricerca. Ciò potrebbe indurre una parte dei disoccupati, detti lavoratori scoraggiati, a smettere di cercare un’occupazione. Lo scoraggiamento trova diffusione soprattutto tra i giovani, che possono decidere di continuare a studiare anziché cercare occupazione, e le donne, che scelgono di svolgere solo il lavoro domestico.
Le donne potrebbero voler rinunciare alla ricerca di un lavoro a causa delle aspettative da rivedere verso il basso o dell’impossibilità di conciliare la vita lavorativa con eventuali aspirazioni familiari e/o personali.
Il report dell’ISTAT di giugno 2020 sul benessere equo e sostenibile, che ha l’obiettivo di valutare il progresso non soltanto dal punto di vista economico, ma anche sociale e ambientale, ci fornisce diversi indicatori sulle disparità di genere. Ne prendiamo in considerazione soltanto due, anche se ve ne sarebbero altri, ugualmente interessanti.
Il primo indicatore è la percentuale di dipendenti con una retribuzione oraria inferiore a 2/3 di quella mediana sul totale dei dipendenti: la mediana è un valore che divide in due parti il totale del campione, cosicché metà di esso ha uno stipendio superiore e l’altra metà inferiore. Questo indice, che mostra quanti dipendenti hanno una retribuzione poco congrua col contesto economico, ci dice che l’11,5% delle donne, contro l’8% degli uomini, è sottopagato.
L’altro indicatore è il tasso di mancata partecipazione al lavoro, che somma ai disoccupati ufficiali le forze di lavoro potenziali e rapporta tale somma alla popolazione attiva, comprendendo le forze di lavoro potenziali. Esso si presta bene a misurare l’offerta di lavoro insoddisfatta. Anche in questo caso vi è una sostanziale differenza tra i due sessi: l’indicatore relativo agli uomini è pari al 15,9%, quello delle donne è pari al 22,6%.
La correlazione tra questi due indici è molto forte, anche se non è possibile stabilire quale variabile influenzi l’altra: la partecipazione al lavoro è frustrata da salari poco dignitosi, oppure salari poco dignitosi vengono offerti perché i lavoratori presenti nel mercato sono disposti ad accettarli? Poco importa. Ciò che emerge da questi dati è che la qualità dell’occupazione non è omogenea: ci sono i buoni e i cattivi lavori e spesso sono le donne a dover scegliere/svolgere, obtorto collo, questi ultimi.
La nostra Costituzione sancisce la parità tra i sessi, ma in concreto ci sono ancora troppe zone d’ombra. Come in un libro di Orwell: siamo tutti uguali, ma gli uomini, forse, sono più uguali delle donne…
LEGGI ANCHE
- Perché fu inserita la parola razza nella Costituzione italiana?
- Il Principio di Peter: incompetenza e casualità come valore aziendale
- Uguaglianza, finanza e mercato: un legame impossibile
[themoneytizer id=”68124-28″]