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Dal caso Lander al ddl sicurezza, la democrazia armata: repressione come nuovo ordine

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L’arresto di Brad Lander rivela la vera natura del potere attuale: non una deriva, ma l’epifania della sovranità poliziesca. La democrazia occidentale muta in apparato repressivo: chi dissente, anche simbolicamente, diventa bersaglio. Nessuno è più al sicuro.

La democrazia armata: repressione come nuovo ordine

Ciò che sta accadendo negli Stati Uniti, a partire dall’arresto violento di Brad Lander, non è una distorsione, né una caduta accidentale di stile democratico: è l’epifania brutale della forma-polizia che il potere ha assunto nella fase attuale del capitalismo globale.

Lander non è un outsider. È un membro integrato della classe dirigente liberal, un candidato sindaco, un rappresentante delle istituzioni. Eppure, è bastato un gesto minimo – trattenere un giovane per impedirne la deportazione – per attivare su di lui l’intero apparato repressivo dell’ICE. Afferrato per il collo, scaraventato al muro, trascinato via in manette davanti a telecamere impietose.

Una scena che racconta molto più della repressione in sé: racconta la natura mutata della sovranità statale in Occidente.

Il gesto di Lander è stato debole solo nella forma: un appello alla legalità, un ultimo rifugio in ciò che resta dell’illusione democratica. Ma proprio questa debolezza lo rende rivelatore. Perché oggi anche il richiamo alla legge, anche l’invocazione delle procedure, anche l’identificazione come “cittadino americano” – come quel disperato “Civis romanus sum” del mondo antico – non basta più a garantire protezione. La sovranità poliziesca ha rovesciato ogni contratto: il cittadino non è più il titolare di diritti, ma il bersaglio mobile di un ordine da mantenere.

Questo modello non è esclusivo degli Stati Uniti. In Francia, la gestione delle rivolte sociali è affidata interamente al dispositivo repressivo: droni, lacrimogeni, corpi speciali, leggi eccezionali.

In Germania, ogni attivismo ecologista viene schedato come “sovversivo” e l’ordine è mantenuto attraverso il binomio sorveglianza-ricatto. In Grecia, le università vengono presidiate dall’esercito.

In Italia, con la nuova legge sulla sicurezza, l’intero spazio del dissenso viene presidiato, neutralizzato, preventivamente criminalizzato. Il Decreto Sicurezza non mira al crimine, ma all’organizzazione. Colpisce le assemblee, le occupazioni, le contestazioni pacifiche. Trasforma il conflitto in disturbo. E il disturbo in reato.

In tutti questi contesti, ciò che si sta consolidando è la fase autoritaria di un capitalismo che ha smarrito la propria capacità di mediazione. Non può più promettere progresso, né benessere, né futuro. Può solo garantire l’ordine. E per farlo, militarizza ogni spazio. Il capitale non riesce più a incorporare le istanze sociali: le espelle.

Il governo non riesce più a rappresentare: comanda. Il diritto non riesce più a tutelare: reprime. La democrazia è diventata un involucro formale dentro cui si esercita un potere di polizia.

Israele è l’emblema accelerato e senza filtri di questa traiettoria. Lì, la legittimità statale si fonda apertamente sull’annientamento di una popolazione, sul controllo biopolitico delle vite palestinesi, sull’assimilazione tra sicurezza e sterminio.

Il modello israeliano, sempre più esportato, consiste nella cancellazione dello spazio civile come tale: le scuole, gli ospedali, le università, i tribunali diventano bersagli. E ogni critica, ogni parola, ogni solidarietà internazionale, viene marchiata come antisemitismo o fiancheggiamento del terrorismo. È la criminalizzazione globale del dissenso.

Ma la questione è più profonda: si tratta della crisi stessa del comando capitalistico. La polarizzazione sociale ha raggiunto livelli irreversibili. Le disuguaglianze si sono incistate nel tessuto urbano, sanitario, abitativo. La guerra – che sia condotta con droni, manganelli o sanzioni – è diventata lo strumento principe della governance. L’unico modo per governare l’insostenibile è normalizzare la violenza. Il vero pericolo non è la fine della democrazia, ma la sua mutazione in apparato di sorveglianza e contenimento.

In questo scenario, la vicenda di Lander è esemplare. Non per il coraggio, ma per la violenza che scatena. Non per la disobbedienza, ma per la punizione che riceve. Un uomo bianco, privilegiato, in un tribunale, che si limita a opporsi verbalmente, viene colpito come fosse un sovversivo. Significa che nessuno è più al sicuro.

Significa che la repressione non ha più bisogno di giustificazioni. E che la società, se non riconosce in tempo questo salto di paradigma, rischia di essere completamente assuefatta alla sua nuova condizione: quella di colonia interna.

Non ci sarà ritorno alla normalità. Ogni futuro politico degno di questo nome dovrà partire da qui: dalla comprensione che la democrazia non è un dato acquisito, ma un campo di battaglia. Che la pace non è la quiete delle caserme, ma il frutto della giustizia sociale. Che la repressione non è l’eccezione, ma l’orizzonte della crisi. Ed è lì che occorre guardare, organizzare, disobbedire. Perché non c’è ordine più pericoloso di quello che si presenta come inevitabile.

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parole ribelli, menti libere

Chiara Pannullo
Chiara Pannullo
Attivista del Collettivo Politico 13 Rosso di Firenze, internazionalista. attiva nell'organizzazione delle iniziative culturali dell'Associazione Mariano Ferreyra

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