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A Los Angeles migliaia di migranti protestano contro le deportazioni di massa. Trump risponde con 4.700 militari. Il governatore Newsom lo denuncia, e l’America si spacca: repressione, arresti, tensioni istituzionali. Una crisi che sa di guerra civile.
La rivolta degli immigrati a Los Angeles
Nel cuore della California, da sei giorni Los Angeles è teatro di una mobilitazione senza precedenti. Migliaia di persone, perlopiù appartenenti alle comunità migranti, sono scese in strada per protestare contro le recenti operazioni di deportazione di massa ordinate dall’amministrazione Trump.
Le immagini delle manifestazioni – blocchi stradali, sit-in, marce e veglie – raccontano di una città che si ribella non solo per difendere i propri residenti, ma per riaffermare un principio basilare: nessun essere umano è illegale.
La miccia è stata accesa da una serie di raid effettuati dall’ICE (Immigration and Customs Enforcement) nei quartieri a più alta densità migratoria, con arresti indiscriminati che hanno coinvolto anche cittadini regolari e famiglie residenti da anni. In poche ore, i centri di detenzione si sono riempiti, mentre nelle strade montava l’indignazione.
Le organizzazioni locali per i diritti civili – tra cui CHIRLA, CARECEN e Unión del Barrio – hanno denunciato una «strategia del terrore» e chiamato a raccolta migliaia di attivisti, studenti, lavoratori, sindacalisti.
Ma la risposta del governo federale è stata brutale. Il presidente Trump ha ordinato il dispiegamento di 2.000 riservisti della Guardia Nazionale, 700 marines dalla base di Camp Pendleton e un totale di oltre 4.700 militari con l’ordine di “ripristinare la pace”. Ufficialmente, l’obiettivo è proteggere infrastrutture sensibili e garantire l’ordine pubblico, ma il dispiegamento massiccio – uomini armati, elicotteri, checkpoint – ha tutta l’aria di una dimostrazione di forza politica, se non di una vera e propria occupazione militare.
Il governatore democratico Gavin Newsom ha reagito con durezza, definendo l’intervento «illegittimo e incostituzionale» e avviando una causa contro il commissariamento federale dei riservisti californiani. La polemica ha assunto toni incandescenti quando l’ex capo dell’ICE, Tom Homan – ora consigliere dell’amministrazione con il titolo ufficioso di “zar della deportazione” – ha suggerito pubblicamente di arrestare Newsom per ostruzione. Trump, dal canto suo, non ha smentito l’ipotesi, alimentando lo spettro di un conflitto istituzionale senza precedenti.
La sindaca di Los Angeles, Karen Bass, ha imposto un coprifuoco notturno nel centro cittadino per tentare di ridurre le tensioni, ma ha accusato apertamente il governo federale di cercare lo scontro. In risposta, numerose città americane hanno espresso solidarietà: a San Francisco, Chicago, New York e Seattle si sono svolte manifestazioni parallele. Oltre venti governatori democratici hanno firmato una petizione congiunta, denunciando l’abuso dell’apparato militare a fini politici e repressivi.
Nel frattempo, gli arresti nelle manifestazioni hanno superato quota 370. Secondo diverse testimonianze raccolte dalla stampa, tra i fermati ci sono studenti, minori e persino attivisti che stavano semplicemente documentando i fatti. Le organizzazioni per i diritti umani parlano di una situazione fuori controllo, con violazioni sistematiche del diritto al dissenso e dell’habeas corpus.
Le comunità migranti, già provate dalla paura e dall’insicurezza giuridica, sono state colpite duramente anche nella quotidianità: famiglie intere si nascondono, i bambini smettono di andare a scuola, il lavoro informale si paralizza.
Non sorprende che le tensioni abbiano acceso anche le aule giudiziarie. Una corte federale si è pronunciata con un’ordinanza interlocutoria che consente temporaneamente il proseguimento dell’intervento militare, in attesa di una valutazione costituzionale più ampia. Ma per molti analisti, ciò che sta accadendo è già sufficiente a mettere in discussione il sistema di pesi e contrappesi che da sempre caratterizza la democrazia americana.
La sensazione diffusa è che l’America sia arrivata a un punto di rottura. Da una parte, un governo federale sempre più autoritario, che usa la forza armata per sopprimere il dissenso civile; dall’altra, una parte del Paese – amministrazioni locali, comunità civili, movimenti sociali – che tenta disperatamente di difendere i diritti costituzionali. Nel mezzo, milioni di persone – migranti, afroamericani, giovani, lavoratori precari – che vedono vacillare le ultime garanzie di libertà e dignità.
Quella che sta andando in scena a Los Angeles è molto più di una protesta: è un bivio storico. La repressione trumpiana, in tutta la sua durezza, ha fatto emergere una verità scomoda e urgente: che l’Impero, come lo definivano i critici, sta implodendo non sotto attacco esterno, ma a causa delle sue stesse contraddizioni interne. E stavolta, il nemico da combattere non viene da fuori: è l’idea stessa di una democrazia che si trasforma, giorno dopo giorno, in autoritarismo legalizzato.
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