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Dopo l’attacco russo a Sumy, riemerge l’indignazione selettiva: l’orrore ucraino amplificato, quello palestinese minimizzato. I media non raccontano i conflitti, li usano per schierarsi, semplificare, spingere agende. I morti diventano strumenti, non drammi.
Doppio standard e propaganda: gli sciacalli di Sumy
A tre giorni dal devastante attacco russo contro la città ucraina di Sumy, mentre dalle cronache emergono zone d’ombra sui fatti (organizzare una celebrazione militare, a pochi km dal fronte, con i soldati protagonisti dell’incursione nel Kursk, rendendolo pubblico e invitando la popolazione all’evento, non appare un’idea brillante…), con accuse politiche tra i vertici ucraini e la rimozione dell’amministratore militare dell’oblast’ della cittadina colpita, Volodymyr Arthyuk, da parte di Zelensky, continuano le reazioni indignate dell’area ‘europeista’. Non tanto per condannare la violenza in sé, quanto per sfruttarla come leva morale contro chi non si esprimerebbe – a loro dire – con sufficiente fermezza contro Vladimir Putin.
Una parte dell’opinione pubblica e del mondo dell’informazione sembra ansiosa di utilizzare ogni tragedia per alimentare il gioco delle contrapposizioni ideologiche, sottolineando con insistenza quanto sarebbe sproporzionata – o addirittura sospetta – l’indignazione verso altri scenari, come quello israelo-palestinese.
Eppure, i dati parlano chiaro. Ogni azione russa riceve una copertura mediatica ampia, capillare, a tratti ossessiva, in netto contrasto con la cautela – o, talvolta, il silenzio – con cui vengono raccontati i massacri a Gaza. Un fenomeno che contribuisce a un progressivo disinteresse nei confronti del conflitto ucraino stesso.
L’Ucraina, vittima di promesse occidentali mai mantenute e martoriata da tre anni di guerra, sembra oggi scomparire dall’attenzione collettiva, schiacciata proprio da quella narrazione moralistica che pretende di difenderla.
Nel frattempo, il governo italiano, in linea con il posizionamento delle principali cancellerie europee, continua a operare all’interno di un paradigma di doppio standard. Anche la grande stampa, anziché rompere lo schema, tende ad assecondarlo: da una parte, sostegno incondizionato all’Ucraina e condanna rituale della Russia; dall’altra, reticenza e giustificazionismo quando a bombardare è l’esercito israeliano.
Il risultato è una narrazione in cui i morti non sono tutti uguali. Le vittime ucraine diventano strumenti utili per denunciare il “putinismo” e per giustificare spese militari sempre più ingenti, coperte attraverso tagli alla spesa pubblica.
I morti palestinesi, al contrario, rappresentano un fastidio mediatico: corpi difficili da occultare, tragedie che costringono a fare i conti con una realtà che si vorrebbe ignorare.
Quando non è possibile evitarli, allora si cerca di ridimensionarli, incorniciandoli nel discorso sul 7 ottobre – una data ormai svuotata dal suo stesso abuso – come se potesse esistere una giustificazione plausibile per oltre 60.000 morti, quasi 200.000 feriti e due milioni di sfollati a Gaza.
Una cosa è chiara: il sistema mediatico dominante non riesce – o non vuole – rappresentare le guerre nella loro complessità geopolitica, storica e strategica. Preferisce invece cavalcare l’indignazione, esasperare le emozioni e alimentare una retorica moralistica funzionale a interessi militari ed economici estranei alla più basilare difesa dei diritti umani.
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