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Abdullah Öcalan ordina la resa: cosa sarà ora dei curdi?

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Abdullah Öcalan, storico leader del PKK, ha dichiarato dal carcere che il gruppo deve deporre le armi e sciogliersi. Questo annuncio potrebbe segnare una svolta per i curdi, che hanno combattuto Daesh e difeso valori democratici, ma restano senza uno stato. Il loro futuro è ora più incerto che mai.

Abdullah Öcalan ordina la resa

“Tutti i gruppi devono deporre le armi e il PKK deve sciogliersi”. Così ha detto oggi Abdullah Öcalan, storico leader del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan, considerato terroristico da Turchia, Usa e UK), prendendo la parola dal carcere turco di Imrali, dove è rinchiuso fin dal 1999 (inizialmente condannato alla pena di morte, vede la sua pena commutata in ergastolo quando la Turchia abolisce la pena capitale per avvicinarsi all’Unione europea). Cosa accadrà ora ai valorosi e coraggiosi curdi del Rojava che hanno combattuto e sconfitto Daesh nel 2015 a Kobane?

I curdi, pur avendo sviluppato una peculiare visione del ruolo delle donne nella società, elaborando una teoria chiamata “jineologia“, rappresentano ancora oggi una delle più grandi nazioni al mondo senza uno stato proprio.

Dal 2004 il Pkk ha costituito le Unità delle donne libere (Yja-Star), una sua ala militare interamente femminile. Le donne rappresentano oggi il 40% delle forze combattenti, una percentuale eccezionale per il Medio Oriente che riflette l’impegno del partito per l’emancipazione femminile.

Con una popolazione stimata tra i 30 e i 40 milioni di persone, questo antico popolo è disperso principalmente tra Turchia, Iraq, Iran e Siria, in un’area geografica chiamata Kurdistan.

La loro storia, che risale a migliaia di anni fa, con le origini si intrecciano con quelle di antiche civiltà mesopotamiche, è caratterizzata da una costante lotta per l’autodeterminazione, ostacolata dalle politiche oppressive di vari stati e potenze regionali. Infatti, nonostante questa lunga eredità culturale, i curdi non hanno mai ottenuto uno stato indipendente riconosciuto a livello internazionale nel periodo moderno.

Dopo la caduta dell’Impero Ottomano e la ridefinizione dei confini in Medio Oriente seguita alla Prima Guerra Mondiale, il popolo curdo si ritrovò diviso tra diversi stati nazionali emergenti. Dal Trattato di Sèvres del 1920, che prometteva uno stato curdo poi negato a Losanna nel 1923, fino ai giorni nostri, la storia dei curdi è una sequenza di tradimenti internazionali.

In Turchia, dove vive la maggioranza della popolazione curda, la loro identità è stata a lungo negata. Per gran parte del XX secolo, i curdi furono ufficialmente designati come “turchi delle montagne” e l’uso della lingua curda fu vietato in contesti pubblici.

Questo approccio assimilazionista ha alimentato ribellioni e movimenti di resistenza. Il PKK, fondato appunto da Abdullah Öcalan nel 1978, iniziò una lotta armata contro lo stato turco nel 1984. Il conflitto ha causato oltre 40.000 morti e lo sfollamento di milioni di persone.

L’obiettivo del PKK è sempre stato storicamente quello di riformare lo stato turco, di dargli una seconda vita e una nuova identità. Per questo concepiscono il partito come un movimento transnazionale al quale curdi e non curdi possono partecipare e che mira a provocare un cambiamento politico, culturale e di organizzazione sociale all’interno della Turchia.

Tale cambiamento costituirebbe la condizione imprescindibile per l’autogoverno delle comunità curde e non curde in Turchia e nei paesi limitrofi. Questa dottrina considera quindi l’autogoverno dei curdi come un processo che passa in primo luogo attraverso la fine progressiva dello stato-nazione come elemento organizzativo della società e l’emergere di nuove forme organizzative fondate e definite da valori comuni (come l’ecologia o l’uguaglianza di genere) invece che da frontiere territoriali.

In questa prospettiva, l’obiettivo del PKK non si limita alla Turchia ma è attivo anche negli altri stati con popolazione curda, l’Iran, I’Iraq e la Siria, e mobilita la popolazione locale in ciascuno di questi contesti.

Così come già detto, esattamente 10 anni fa il gruppo affrontava Daesh in Siria e Iraq, con il paradosso che mentre i curdi combattevano al fianco della coalizione internazionale contro Daesh, il Pkk rimaneva nella lista delle organizzazioni terroristiche di Stati Uniti, Unione Europea e Nato.

I curdi hanno versato il loro sangue per fermare l’ondata nera del terrore che minacciava di travolgere l’Occidente, hanno resistito a Kobane quando nessuno credeva possibile arrestare la più che temibile avanzata di Daesh, o Isis, come dir si voglia. Le loro unità di difesa, con particolare menzione per i battaglioni femminili delle YPJ, hanno combattuto casa per casa, strada per strada, mentre il mondo guardava attraverso le lenti delle telecamere.

Donne in tenuta mimetica e con fucili d’assalto hanno sfidato non solo i jihadisti ma secoli di oppressione patriarcale, diventando il simbolo di una resistenza che trascende la mera lotta territoriale. “Non abbiamo nulla da perdere se non le catene”, asserivano le combattenti curde. E non erano solo parole. Mentre i governi occidentali esitavano, i curdi morivano per gli stessi valori che l’Occidente proclama di difendere: libertà, uguaglianza, democrazia.

La liberazione di Raqqa, capitale de facto di Daesh, è stata possibile grazie al sacrificio curdo. Migliaia di giovani hanno perso la vita liberando città siriane e irachene dal giogo del terrore. Città di cui, paradossalmente, i curdi non potevano reclamare il controllo una volta finita la battaglia.

La geopolitica, spietata come sempre, ha fatto sì che dopo aver combattuto i mostri, i curdi venissero nuovamente abbandonati. Infatti la gratitudine internazionale si è rivelata effimera come nebbia al sole.

Ad ogni modo, nonostante le difficoltà, i curdi hanno mantenuto viva la loro identità culturale. La loro ricca tradizione letteraria, musicale e artistica continua a fiorire, spesso come forma di resistenza culturale. I curdi hanno anche sviluppato modelli politici innovativi, come il confederalismo democratico che enfatizza l’ecologia, il femminismo e la democrazia diretta. Nelle aree sotto controllo curdo, le donne hanno assunto ruoli di leadership significativi, sfidando le norme patriarcali tradizionali della regione.

Ad oggi la questione curda rimane irrisolta, rappresentando una delle sfide più complesse nel panorama geopolitico del Medio Oriente. La loro lotta continua a ricordare al mondo l’importanza fondamentale dei diritti umani e culturali, e la necessità di soluzioni politiche che rispettino la dignità e l’identità di tutti i popoli.

In un contesto regionale dominato da autoritarismo e fondamentalismo religioso, i curdi hanno osato sognare una società dove diverse etnie e religioni possano coesistere pacificamente. Un’utopia? Forse. Ma è un’utopia per cui vale la pena combattere. Nelle montagne che separano Turchia, Iran, Iraq e Siria, i combattenti curdi continuano a resistere.

Le canzoni tradizionali risuonano attorno ai fuochi, raccontando di eroi caduti e di una terra promessa mai realizzata. Eppure, nei loro occhi non si legge rassegnazione, ma determinazione: “Siamo abituati a combattere contro l’impossibile,”, raccontano gli anziani, “La nostra storia è scritta con il sangue, ma anche con l’inchiostro della speranza”.

Continueranno i curdi la loro lotta secolare? Una lotta che non è solo per l’autodeterminazione di un popolo, ma per valori universali che riguardano tutti noi. Perché quando i curdi combattono per la loro libertà, in realtà, combattono anche per la nostra.

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Eugenio Cardi
Eugenio Cardi
Scrittore, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato ad oggi dodici romanzi, pubblicati in Italia e all’estero

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