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Settantasei anni di occupazione militare illegittima, un anno di violenze sistematiche, e totale impunità sulla scena globale. Se vi perdete in giochi di parole per evitare di vedere l’elefante nella stanza, è un problema vostro.
Cos’altro deve accadere per fermare Israele?
Sono ormai mesi che assistiamo a un’escalation di violenza da parte di Israele a Gaza e in Cisgiordania, nei confronti di civili palestinesi, e appare sempre più difficile giustificare queste operazioni, tanto più di fronte alla documentazione di giornalisti, organizzazioni umanitarie e osservatori internazionali. Eppure nulla si muove, anzi, continua a peggiorare, con l’estendersi del conflitto al Libano.
Ogni giorno emergono nuovi racconti di attacchi indiscriminati: bombardamenti su aree residenziali, violenze su civili, limitazioni ai soccorsi e detenzioni arbitrarie di palestinesi.
La popolazione della Palestina occupata, già provata da anni di repressione e violenze, vive oggi sotto una minaccia quotidiana che non risparmia neanche i luoghi considerati rifugio, come i campi per rifugiati. Episodi come l’attacco a un campo di rifugiati, il cecchinaggio di bambini e il blocco armato dei soccorsi delle Nazioni Unite hanno fatto scalpore e sollevato indignazione in tutto il mondo.
Questi fatti sono difficili da ignorare per chiunque si informi attraverso fonti indipendenti e affidabili, evitando quella che molti definiscono “l’informazione ufficiale”, spesso caratterizzata da omissioni.
Come in passato, ogni critica viene bollata da alcuni come antisemitismo, anche se molte voci critiche provengono da ebrei stessi, impegnati in una lotta etica contro queste ingiustizie. Tra questi, ad esempio, Sarah Friedland, regista di origine ebrea, che a settembre durante la cerimonia di premiazione al Festival di Venezia ricordò come fosse “responsabilità dei registi utilizzare le piattaforme istituzionali per affrontare l’impunità di Israele sulla scena globale”.
Un conflitto perpetuato dal silenzio e dall’impunità
Il termine “genocidio” è stato utilizzato anche dalla Corte dell’Aja dove Israele è a processo. È una parola che, come prevedibile, suscita controversie e obiezioni, ma è una parola che va usata per descrivere l’uccisione sistematica e indiscriminata di un gruppo etnico per eliminarlo da un territorio, cioè quello che sta accadendo davanti agli occhi di tutti. L’impunità di Tel Aviv è garantita dal supporto statunitense, che blocca ogni intervento o critica sostanziale nei confronti delle sue azioni.
La sofferenza psicologica dei testimoni di questi eventi è un’altra questione che viene troppo spesso ignorata. I conflitti senza fine e le atrocità sistematiche creano un “ottundimento psicologico” per molti, esaurendo le risorse emotive e producendo una forma di apatia.
La reazione umana naturale alle ingiustizie prevede un’azione immediata, ma in assenza di una risposta concreta, l’emozione di sdegno si affievolisce, e il massacro sistematico rischia di divenire routine. Questo è un meccanismo che, come la storia ha dimostrato, viene spesso sfruttato dai potenti per consolidare il proprio dominio e legittimare le violenze.
Una strategia di impunità globale
Le ragioni che impediscono di chiamare Israele a rispondere delle proprie azioni sono in gran parte legate agli equilibri geopolitici. Israele è un “avamposto” in Medio Oriente protetto dagli Stati Uniti, che, indipendentemente dal governo in carica, garantiscono sostegno incondizionato. Questo contesto di impunità consente l’eccidio quotidiano di innocenti, senza che la comunità internazionale intervenga con fermezza.
Mentre i leader europei e americani continuano a proclamare il loro impegno per i diritti umani, le immagini di distruzione e le storie di sopravvissuti rivelano una realtà che spesso smentisce le loro dichiarazioni.
L’occupazione di lunga data e le violenze perpetrate quotidianamente contro la popolazione palestinese sono diventate, per molti, simbolo dell’ipocrisia delle democrazie occidentali, che non esitano a condannare altri stati ma non riescono ad affrontare le responsabilità di Israele.
È tempo che la comunità internazionale, e in particolare gli Stati Uniti e i loro alleati, mettano da parte i doppi standard e chiedano conto delle azioni di Israele in Palestina. La difesa dei diritti umani e della giustizia non può più tollerare eccezioni o silenzi complici di fronte alla sofferenza di un intero popolo.
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