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Fitto e l’Ue spostano i fondi del Sud verso l’industria bellica: sviluppo sacrificato per gonfiare la bolla finanziaria degli armamenti. Il Mezzogiorno perde risorse, mentre i profitti delle lobby militari volano. È rapina travestita da “opportunità europea”.
Fitto, Bruxelles e la grande rapina: i soldi del Mezzogiorno per gonfiare la bolla degli armamenti
Mentre le retribuzioni dei giovani italiani si riducono drasticamente — un -23% in appena quattro anni — e oltre un milione di giovani abbandona il Paese in cerca di un futuro altrove, l’Unione Europea, con la benedizione del governo Meloni e l’opera zelante del ministro pugliese Raffaele Fitto, mette in atto una vera e propria operazione di sottrazione programmata ai danni del Mezzogiorno.
I fondi FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale), teoricamente destinati a colmare i divari tra le aree più avanzate e quelle più arretrate dell’Europa, vengono ora riorientati con disinvoltura verso la produzione bellica e le infrastrutture militari.
L’operazione è politicamente camuffata da “opportunità di sviluppo” e “rilancio industriale”, ma nei fatti si traduce in un’ulteriore desertificazione economica e sociale del Sud Italia, già in bilico tra emigrazione di massa e cronica disoccupazione.
La motivazione ufficiale? Favorire la costruzione di “infrastrutture resilienti a duplice uso” e “facilitare la mobilità militare nell’Ue”. In pratica, spostare risorse da progetti di inclusione e sviluppo locale alla logistica bellica continentale.
Dallo sviluppo alla guerra: il Mezzogiorno trasformato in una retrovia militare
Fino ad oggi, i fondi FESR erano impiegati in progetti dedicati alla formazione, all’inclusione sociale, alla rigenerazione delle cosiddette “aree interne”.
Oggi, invece, la priorità è la costruzione di strade per blindati e caserme, in linea con la nuova dottrina europea del riarmo. A rimetterci sono, come sempre, le aree più svantaggiate di un Paese già profondamente spaccato in due.
Secondo le nuove linee guida comunitarie, le regioni che scelgono volontariamente di destinare i fondi allo sforzo bellico otterranno condizioni di finanziamento ben più vantaggiose: il 30% dei fondi verrà erogato subito (contro lo 0,5% attuale), si disporrà di un anno in più per l’esecuzione dei progetti e — dato cruciale — non sarà più necessario cofinanziare gli interventi. Tradotto: per chi si piega alla logica della guerra, i soldi arrivano subito, in abbondanza, e senza dover mettere nulla di tasca propria.
Il Mezzogiorno, quindi, può “scegliere” se continuare a investire nei suoi giovani, nei suoi borghi abbandonati, nelle sue università e imprese locali, oppure trasformarsi nella portaerei d’Europa, sacrificando definitivamente ogni ambizione di sviluppo autonomo. Raffaele Fitto, da buon “amministratore coloniale”, ha scelto la seconda opzione.
La bolla militare e i profitti delle oligarchie
La verità, però, è che questa riconversione bellica non ha nulla a che vedere con la difesa, e ben poco anche con la produzione reale. Siamo di fronte a una gigantesca bolla finanziaria, simile a quella dei subprime nel 2008, ma con un impianto morale ancor più tossico. I titoli delle principali aziende belliche europee e anglosassoni — Rheinmetall, Leonardo, Safran, Thales, Rolls Royce — sono esplosi: +800%, +2000%, in alcuni casi persino oltre.
Chi guadagna? Le grandi oligarchie finanziarie internazionali. A perderci, oltre ai cittadini bombardati nei conflitti reali, sono le popolazioni delle periferie europee, private di risorse fondamentali per la loro stessa sopravvivenza. L’industria bellica, paradossalmente, produce pochissime armi in proporzione al capitale che attira: il suo vero prodotto è il rendimento speculativo.
Fitto, dunque, non è che un ingranaggio di questo meccanismo: mette la faccia su un’operazione che svuota le casse del Sud per ingrassare i portafogli dei fondi d’investimento globali. Un’operazione cinica, che trasforma lo sviluppo in retorica e la guerra in motore finanziario.
Una colonia tra Washington, Bruxelles e Mar-a-Lago
Nel frattempo, l’Unione Europea, che per anni ha predicato rigore fiscale, austerità e compressione salariale, oggi abbraccia entusiasticamente il modello americano, rispolverando concetti come la svalutazione competitiva dell’euro — un tempo anatema bocconiano — per fronteggiare l’impatto dei dazi USA. L’obiettivo: evitare uno scontro diretto con l’impero di Re Donald e garantire che la finanza possa continuare a estrarre valore ovunque vi siano risorse da drenare.
In questo contesto, anche figure come Francesco Giavazzi — per trent’anni fautore dell’austerità e della moneta forte — si riscoprono improvvisamente keynesiani a orologeria, proponendo politiche monetarie espansive in perfetta sintonia con le esigenze dei grandi capitali. L’idea è quella di fare dell’euro ciò che si faceva con la lira negli anni Ottanta: una moneta debole per sostenere l’export… e i profitti degli oligopoli.
Il risultato? La perdita di ogni sovranità reale e la sottomissione simultanea a due padroni: da un lato, i fondi finanziari statunitensi come BlackRock; dall’altro, la nuova corte trumpiana che si appresta a rientrare alla Casa Bianca. E mentre Bruxelles si adegua con zelo, il Sud Italia affonda nel silenzio.
Un’opportunità che sa di truffa
In nome di un’effimera competitività militare, i fondi per le scuole, le infrastrutture civili, l’occupazione giovanile e la coesione sociale vengono scippati per essere destinati a un sistema che produce solo guerra e profitti per pochi. La narrazione ufficiale parla di opportunità; la realtà è una truffa ben orchestrata, di cui Fitto è solo l’alfiere più disciplinato.
L’idea stessa che si possa sostenere lo sviluppo del Sud trasformandolo in una piattaforma logistica militare è una distorsione talmente grottesca da meritare soltanto indignazione. Le priorità sono chiare: favorire la speculazione e l’obbedienza atlantista, anche a costo di abbandonare milioni di cittadini alla povertà, all’emigrazione, alla marginalità.
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