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La fine dei partiti ha svuotato la democrazia: persi mediazione, formazione e rappresentanza, sostituiti da leaderismi, hype e politica-spettacolo. Senza partiti veri, la democrazia diventa fragile, emotiva e incapace di affrontare le sfide complesse.
La fine dei partiti
– Alexandro Sabetti e Ferdinando Pastore
Negli ultimi decenni, la parabola discendente dei partiti politici tradizionali ha coinciso con una crisi profonda della democrazia rappresentativa. Un fenomeno che non riguarda solo l’Italia, ma che si manifesta con tratti simili in molte democrazie occidentali.
Per comprenderne le ragioni e le conseguenze, occorre riflettere sul ruolo storico che i partiti hanno avuto e sulle distorsioni che la loro progressiva scomparsa ha generato.
Le polemiche sulla presenza di organizzazioni politiche che ciclicamente montano in occasione di celebrazioni come il 25 Aprile, sono funzionali al processo di spoliticizzazione di ogni forma partecipativa e bisognerebbe invece ricordare che furono i partiti, e in particolare le formazioni partigiane a loro legate, a combattere contro l’occupazione nazifascista.
A guerra finita, furono sempre i partiti — attraverso la capillare rete di sezioni territoriali, i lunghi dibattiti interni, gli organi di stampa, le scuole di formazione politica — a esigere l’applicazione della Costituzione repubblicana.
In quel contesto, la democrazia non fu mai intesa come un semplice esercizio procedurale, bensì come un progetto collettivo, da costruire giorno per giorno con il coinvolgimento attivo dei cittadini.
I partiti costituivano la struttura intermedia tra società civile e istituzioni: educavano alla cittadinanza, selezionavano la classe dirigente, garantivano la rappresentanza degli interessi sociali, elaboravano progetti politici di lungo periodo.
Non era un processo rapido né perfetto — anzi, si svolgeva attraverso dinamiche spesso lente, talvolta opache — ma era un percorso di mediazione fondamentale, che evitava derive personalistiche e tecnocratiche.
L’avvento della politica liquida
Con la crisi dei partiti tradizionali, a partire dagli anni Ottanta e Novanta, è emerso un modello completamente diverso, basato sulla spettacolarizzazione della politica e sulla disintermediazione. Invece delle sezioni territoriali, oggi dominano i social network; al posto dei congressi, troviamo le kermesse mediatiche; anziché visioni ideali condivise, prevalgono leader carismatici che costruiscono il consenso sulla base di slogan e hype momentanei.
Come osservato, il “mondo fantasmagorico” della Rete, delle community virtuali e del movimentismo liquido ha generato figure e fenomeni come Donald Trump, Carlo Calenda, Elly Schlein, la Leopolda di Matteo Renzi, il raduno di Atreju della destra italiana, fino agli appuntamenti elitari del Forum di Davos.
In tutti questi casi, la politica si riduce a brandizzazione di sé, marketing individuale, eventi ad alta intensità emotiva, senza radicamento territoriale né autentico confronto democratico.
L’idea stessa di partecipazione si è svuotata: non si tratta più di militare in un partito, di formarsi e di confrontarsi su idee e programmi, ma di “seguire” un leader, di “likeare” un post, di partecipare a primarie aperte che sono spesso meri plebisciti di conferma.
La perdita della dimensione collettiva
L’erosione dei partiti ha avuto conseguenze devastanti sulla qualità della democrazia. I cittadini, privati degli strumenti di mediazione e formazione, si sono trasformati in consumatori di politica anziché in protagonisti. Si è diffusa una cultura dell’istantaneità, della semplificazione, dell’emotività, che favorisce inevitabilmente il populismo e il decisionismo autoritario.
Come rilevato in analisi di think tank autorevoli come il Carnegie Endowment for International Peace e il Bertelsmann Transformation Index, l’indebolimento dei corpi intermedi favorisce l’instabilità politica e la polarizzazione estrema, riducendo la capacità delle democrazie di affrontare con serietà sfide complesse come la gestione delle disuguaglianze, la transizione ecologica, o le crisi internazionali.
Non è un caso che, in questo scenario, anche la guerra — dalla quale i partiti del dopoguerra avevano voluto esplicitamente distogliere lo sguardo della politica democratica — sia tornata ad essere considerata uno strumento di politica ordinaria. L’assenza di partiti radicati significa anche assenza di dibattiti reali sulle scelte di politica estera, sostituiti da narrazioni semplificate e da adesioni impulsive ai blocchi geopolitici dominanti.
Partiti da rifondare, non da rimuovere
Naturalmente, non si tratta di idealizzare acriticamente i partiti del passato, che pure hanno avuto le loro degenerazioni: clientelismi, burocrazie autoreferenziali, immobilismo. Ma la soluzione non può essere la loro cancellazione, bensì una loro rifondazione.
È necessario ripensare il ruolo dei partiti come luoghi di formazione politica, di partecipazione critica, di rappresentanza autentica degli interessi sociali. Occorre riconoscere che senza partiti veri — non comitati elettorali mascherati, non movimenti liquidi — la democrazia diventa una finzione governata da oligarchie mediatiche, economiche o tecnologiche.
Come ammoniva Norberto Bobbio, la democrazia vive se esistono canali organizzati e stabili che permettano ai cittadini di incidere sulle decisioni collettive. Oggi più che mai, in un’epoca segnata dalla volatilità e dal disorientamento, la ricostruzione di partiti politici solidi, democratici, radicati e trasparenti è una condizione imprescindibile per salvare la sostanza della democrazia stessa.
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