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Il caporalato di ieri e di oggi in un dialogo disarmante, un raffronto destabilizzante per la logicità consequenziale della narrazione.
Terra rossa. Il caporalato di ieri e di oggi
«Ma che lingua parlano quelli lì?». Il giovane si riferiva agli uomini carichi di casse di pomodori che, sotto le nubi, muovevano verso la statale.
«Credo parlino senegalese, nigeriano. Non ne ho proprio idea» rispose l’altro, più curvo e ritorto.
«Se sono secoli che te ne stai piantato qui, non puoi non sapere che lingua parlano». Il giovane non attese risposta: «E di che cosa parlano».
«Parlano d’iniquità sociale, della traversata compiuta per mare per toccare le nostre coste e della fatica che devono fare per guadagnare una miseria e poi finire ammazzati sulla strada verso casa, al volante di un pulmino, per un colpo di sonno, o sui campi, per un colpo di sole».
«E tu come lo sai, se non conosci la loro lingua?».
«Perché sto qui piantato da secoli». Una cinciallegra si posò su di lui.
«Ma almeno una casa dove tornare ce l’hanno?».
Il vecchio scosse la chioma argentata.
«E prima era meglio? Intendo quando tu eri giovane come me».
«L’idea di un passato migliore è un’involontaria selezione del ricordo, una sciocchezza che fa comodo soprattutto agli umani, che quando sentono di non avere più futuro, si rifugiano nel passato, esaltando una storia che non li ha neppure visti testimoni».
Appoggiato al muretto a secco di fronte alla masseria, il giovane rimase pensoso.
«Metti quella volta nel 1946 a Andria», riprese il vecchio come sul filo di un pensiero.
«L’Italia era stata liberata da undici mesi e piangeva ancora i suoi morti, uomini strappati alla famiglia e alla terra, eroi come don Pietro Pappagallo, prete e figlio di cordaio, o Gioacchino Gesmundo, professore, entrambi di Terlizzi emigrati a Roma, entrambi fucilati alle Fosse Ardeatine.
Era finita la guerra contro lo straniero, ma non quella contro la diseguaglianza e la fame.
Le rappresaglie dei contadini contro i padroni si accendevano in tutto il meridione, lo diceva il padrone parlando col fattore che poi lo riferiva al bracciante che poi lo diceva a me, mentre al riparo sotto la mia ombra mangiava pane e sale prima di riprendere la zappa».
Un merlo svolazzò attorno alla chioma del vecchio, gli riferì che a breve sarebbe arrivata la pioggia.
I campanacci risuonavano nell’aria bassa di nubi assieme alle voci, alle parole sconosciute di un altro gruppo di lavoratori che risaliva lo sterrato. Uno di essi inciampò e cadde, quello che li conduceva al camion lo raggiunse per ficcargli la punta del bastone nello stomaco.
«Che cos’è l’ingiustizia sociale?» domandò il giovane continuando a guardare la scena.
L’altro indicò l’uomo ancora in terra e quello sopra di lui che gli impediva di alzarsi.
«Ingiustizia sociale è quando la fatica del lavoro non è commisurata al salario ricevuto. Quando si perde dignità».
Più il giovane ci pensava, meno ne capiva la ragione. In definitiva, nella sua scarsa esperienza di ulivo non esisteva questa “ingiustizia sociale”. La pioggia, quando arrivava, ce n’era per tutti, non distingueva tra gelso e fico, tra castagno e salice. Così il sole e il vento, ma anche la grandine e la neve, se andava male, che lì nella Murgia quando arrivava bruciava ogni cosa.
«Nel dopoguerra i braccianti volevano giustizia, la proprietà della terra che lavoravano, la loro terra, rossa come le bandiere socialiste», riprese il vecchio, dando ospitalità stavolta a un barbagianni che si preparava a iniziare il servizio notturno.
«Chiedevano dignità, case che non fossero stalle, di sfamare i loro figli. Ma i proprietari non cedevano. I preti cercavano di calmare gli animi, ma le omelie non hanno mai saziato nessuno.
E quando si giunse a marzo del ’46, li vidi sin da qui i gruppi di scioperanti che raggiungevano Andria da ogni paesino della Puglia.
Che si avviavano con i forconi verso la piazza, dov’era il palazzo delle sorelle Porro. Stava per succedere qualcosa di grave, così dissero concitati gli uomini che si avvicendavano nei miei pressi, prima di rientrare in masseria.
A giugno dell’anno precedente sempre a Andria era stato fatto fuori un civile, pochi giorni più tardi una guardia giurata. Ogni giorno si sentiva di scontri verbali nei bar, per strada, tra braccianti e proprietari terrieri.
I primi di marzo nemmeno i capi partito sapevano come fermare quella che sembrava una vera rivolta».

Dal fondo dello sterrato i due videro un pulmino svoltare e frenare proprio davanti alla masseria. Tre uomini scesero e ordinarono agli africani di mettersi in fila, uno per volta li spinsero con malagrazia nel veicolo.
«Non ci sono colpevoli o innocenti quando si tratta di sopravvivere», aggiunse il vecchio.
«E che cosa accadde in paese?».
«Venti carabinieri non furono sufficienti a contrastare i civili in lotta. Neppure il comizio in piazza del sindacalista Di Vittorio calmò gli animi. Da Andria la Questura richiese carri armati.
Molti proprietari lasciarono la cittadina. Il giorno dopo, però, i rivoltosi erano circa duemila. Ci furono morti da una parte e dall’altra, tra Stato e Popolo, tra civili e militari».
Il pulmino si mise in moto. Il giovane vide attraverso i finestrini opachi quegli uomini attaccati gli uni agli altri e alle casse di pomodori. Il caporale diede gas e partirono in una nuvola di polvere.
Poi, tutto intorno si fece silenzio. E come ogni giorno dall’inizio dei tempi, gli uccelli diurni smisero il loro canto e quelli notturni si prepararono a prendere il loro posto.
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