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Se ne va un gigante, uno sciamano, un intellettuale che ha rivoluzionato la tradizione folk, fondendo modernità e radici. Roberto De Simone, scomparso a 91 anni nella sua grande casa rifugio di Via Foria, ha creato un ponte tra popolo ed élite, ma oggi il suo genio è quasi dimenticato.
Roberto De Simone: l’ultimo sciamano di Napoli
È il 1974 quando viene pubblicato questo disco della Nuova Compagnia di Canto Popolare: “li sarracini adorano lu sole”, contenente dieci canzoni di cui otto tradizionali rielaborati da De Simone. È a mio avviso la vetta di un lavoro che è di ricerca ma anche di riattualizzazione sulle radici folk dell’area napoletana e campana, anni prima dell’esplosione della world music. Senza quest’opera ad esempio non avremmo avuto nemmeno un “Creuza de ma”.
Qui c’è soprattutto “Tammurriata nera“, di E. A. Mario e Eduardo Nicolardi, in una versione incalzante ed emozionante che non avrà pari, e “O cunto ‘e Masaniello“, scritta dallo stesso De Simone.
E qualcosa che, fino ad allora, era di nicchia, giunge in quel momento a un pubblico di massa. Anche perché, nell’ossequio della tradizione, e con l’uso di strumenti acustici, la grinta è quasi rock, i ritmi sono travolgenti, le polifonie vocali non fanno invidiare quelle dei gruppi storici del folk britannico.
De Simone non è un purista, è un modernizzatore che custodisce la magia dell’antico, e la sua polemica in difesa dell’orale contro De Filippo gli serve per avere tra le mani una tradizione che sia viva e plasmabile, che abbia un contatto vivo con la canzone napoletana moderna, da Sergio Bruni (che arrangerà) a Edoardo Bennato (suoi gli arrangiamenti di archi e fiati di “Un giorno credi”) e Pino Daniele, fino al rap.
Ciò che si ciba dell’argento vivo, della strada, ma col confronto con gli studi di chi è nei conservatori. Un grande ponte tra popolo e élites con cui De Simone fa sedere Napoli di nuovo tra le grandi città europee.
Ma conservando sé stessa e radici che affondano in un momento storico rimosso, ciò che viene prima della “napoletanità” di cui dice La Capria, nella crudezza del Pentamerone, come nel presepio controriformista e insieme pagano di fine ‘600, dunque vissuto non come fuga dal moderno e dalle sue contraddizioni (il Lucariello di Eduardo lo vive così) ma come idea di comunità di vivi e morti, e perfino discesa negli inferi e/o viaggio nel subconscio popolare.
Purtroppo non siamo riusciti a tutelare il suo genio e oggi fuori da Napoli quasi non si sa neppure più chi fosse. E negli ultimi decenni era anche difficile scorgerne la presenza in città, al netto di alcune uscite sui giornali molto polemiche con gli amministratori e i nuovi padroni della cultura.
De Simone si era fatto fantasma, anzi monaciello, sciamano in esilio nella sua stessa città. Che osservava quasi di nascosto, come qualcuno che ti segue nei vicoli di notte e non riesci mai a vedere ma sai che c’è. Ne abita il tufo giallo. I marmi di qualche vecchia chiesa. O si è dileguato nel chiaroscurale di una tela di Caravaggio. È lì che immaginiamo ora si sia definitivamente rintanato.
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