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Mozione sulla Palestina, accerchiamento della Schlein, incompatibilità insanabili nel Pd. Dietro lo scontro, la crisi di un sistema costruito sull’austerità e sul vincolo esterno. Se il Pd si divide, i tecnici sono pronti.
La logica: scissione Pd o restaurazione?
La logica politica racconterebbe di un’incompatibilità assoluta tra le varie fazioni del Partito democratico, soprattutto a seguito della mozione congiunta con Avs e i 5Stelle sulla Palestina. Merito della tenacia con cui Conte ha rivendicato una legittima radicalità di atteggiamento su questioni così decisive per la storia e per il futuro economico e sociale del Paese, quali il genocidio in corso a Gaza e la corsa agli armamenti, utile alla recrudescenza bellica ormai linea ideologica dell’Europa Unita.
Non sono così propenso nel riconoscere una genuina crisi di coscienza nel gruppo dirigente democratico, forse vale di più l’antico adagio tipico della tradizione del vecchio Pci che non voleva o mal sopportava nemici alla sua sinistra.
Ma, al di là delle intenzioni recondite, ciò che contano sono le determinazioni pubbliche, per cui il riconoscimento dello stato palestinese e dell’azione genocidaria di Israele, compongono una inconciliabile convivenza con le altre anime di quel partito.
L’accerchiamento nei confronti della Schlein, che è anche uno sparare contro i rinnovati sussurri influenti di Massimo D’Alema, arriva da più avamposti: i cattolici con smania di protagonismo, i sionisti spalleggiati dalle colonne statunitensi de “Il Foglio”, il personale amministrativo degli enti locali capeggiato da Bonaccini e dai super-sindaci, i demiurghi in doppiopetto di stanza a Bruxelles con accesso privilegiato al Quirinale, gli anchorman di grido rappresentati nel Parlamento europeo dalla loro portavoce Lucia Annunziata e soprattutto i quotidiani ciclostilati da “La Repubblica” che dettano immancabilmente la linea di condotta esemplare perché un reazionario illuminato possa riconoscersi nel Partito democratico.
Se l’assedio dovesse diventare unitario o se la Schlein dovesse resistere, la logica, dunque, dovrebbe certificare una scissione di quell’organismo informe chiamato Pd che, nella lunga era della globalizzazione finanziaria, ha rappresentato l’architrave e il punto di equilibrio del sistema istituzionale concepito sul vincolo esterno.
Soprattutto se, come affermato da osservatori più profondi di me, lo scenario in cui i capitali liberi e gli investitori privati che condizionavano le politiche pubbliche, fosse stato davvero assassinato dall’apparizione di Donald Trump.
In realtà non sento di essere così perentorio nel dichiarare morto così velocemente un sistema di potere tanto ramificato. La consapevolezza, ad esempio, che il sistema pensionistico statunitense sia ostaggio dei fondi di investimento e che gli stessi controllino le big tech in modo che le sparate sui dazi debbano poi tener conto di chi ha in mano le leve dell’equilibrio sociale, non ha destato alcuna preoccupazione. O l’avanzata dei grandi fondi nel cuore dell’Europa in cerca di buoni investimenti – solo a settembre l’incontro tra Meloni e Larry Fink – per mercanteggiare tra il business delle armi e quello del welfare da disintegrare definitivamente, non sta suscitando poi grandi turbamenti.
Un apparato, quello dell’austerità finanziaria, duro a spegnersi, pronto, anzi, a immolare l’Europa in guerra pur di salvare i propri tornaconti. Per cui sono sempre alle porte marchingegni di ingegneria istituzionale, quali sono ad esempio i governi tecnici, per riportare in linea un sistema politico.
Una soluzione che azzererebbe la crisi dialettica nel Partito democratico e la aprirebbe nel reale nemico della seconda repubblica: il Movimento 5 stelle con la sua ingenua volontà di riportare parte della popolazione dentro le istituzioni.
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