L’eterna lotta tra salari e profitti governata da leggi che sfuggono anche ai manager, costretti ad adeguarsi a principi imposti da entità astratte.
Salari e profitti, un conflitto senza etica
Qualche settimana fa, il vicepresidente di Confindustria, Maurizio Stirpe, nel corso di un incontro col ministro del lavoro Andrea Orlando, ha affermato che:
dove non ci sono condizioni di sospensione per legge, ma riduzione di attività dovute al mercato, dobbiamo consentire alle aziende di potersi riposizionare, per far ripartire il mercato del lavoro. Se affrontiamo il problema della riforma degli ammortizzatori potremo anche finalmente affrontare il tema del reddito di cittadinanza, che non dà nessuna risposta in termini di politiche attive.
Dunque, secondo il numero due di Confindustria, per risolvere i problemi del mercato del lavoro occorre dare alle imprese la libertà di licenziare e occorre rivedere (o eliminare…) il reddito di cittadinanza, in modo da poter mettere in pratica le classiche politiche aziendali: efficienza, risparmio e zero tutele per i lavoratori.
Nulla di strano: gli imprenditori si comportano così da sempre. Addirittura, in un’ottica di economia positiva che esuli da qualsiasi giudizio di valore, devono comportarsi in questo modo!
Secondo i manuali di economia industriale e secondo il codice civile, è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. Senza addentrarci in dettagli troppo tecnici, concentriamoci sul concetto di attività economica, ovvero la gestione di un flusso di beni e servizi con l’obiettivo di avere un profitto, cioè la differenza tra ricavi e costi. Di conseguenza un’impresa avrà un profitto maggiore – cioè avrà perseguito in maniera efficiente il suo obiettivo – quanto più riuscirà ad aumentare le vendite e ad abbattere i costi.
Elaborando i dati ISTAT relativi alle performance delle imprese italiane, è possibile confrontare il fatturato, il costo per l’acquisto di beni e servizi e il salario: il fatturato, dopo un crollo dovuto alla crisi finanziaria mondiale del 2006, è tornato ai livelli precedenti ed è rimasto più o meno stabile, così come il costo per l’acquisto di beni e servizi; salari e stipendi, per contro, hanno subito un incremento costante, seppure assai contenuto (circa un punto percentuale all’anno).
Le retribuzioni dei dipendenti rappresentano una voce importante nel conto economico delle imprese, lo conferma anche il recente rapporto del CERVED: il costo del lavoro per unità di prodotto ha continuato a crescere anche nel 2020 nonostante l’estensione della cassa integrazione a tutte le categorie di lavoratori.
Salari dignitosi che si adeguano al costo della vita sono frutto di principi sanciti in un lontano passato nel nostro ordinamento – Costituzione, Codice Civile e Statuto dei Lavoratori – e che difficilmente possono essere messi in discussione; perciò si tenta di aggirare l’ostacolo in altri modi, attraverso velate minacce (i salari aumentano e le imprese sono costrette a delocalizzare) o spiegando che le perdite di efficienza spesso sono causate da centralizzazione a livello nazionale delle contrattazioni delle retribuzioni.
Nel Manifesto del Partito Comunista, a metà del diciannovesimo secolo, Karl Marx scriveva:
con l’estendersi dell’uso delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere indipendente e con ciò ogni attrattiva per l’operaio. Egli diviene un semplice accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un’operazione manuale semplicissima, estremamente monotona e facilissima da imparare. Quindi le spese che causa l’operaio si limitano quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha bisogno per il proprio mantenimento e per la riproduzione della specie. Ma il prezzo di una merce, quindi anche quello del lavoro, è uguale ai suoi costi di produzione. Quindi il salario decresce nella stessa proporzione in cui aumenta il tedio del lavoro.
Marx analizzava il suo tempo, dunque è ovvio che il passo vada contestualizzato, ma rimane il senso – drammatico – di come i lavoratori siano (debbano essere, se il punto di vista è quello dell’imprenditore) mere appendici del processo produttivo, governato da leggi che nel caso delle aziende multinazionali sfuggono finanche ai manager e ai capitani d’industria, costretti ad adeguarsi a principi di efficienza imposti da entità astratte di fantozziana memoria.
Fondazioni, trust, holding o fondi d’investimento hanno criteri ancora più semplici dei veri imprenditori: se gli utili, l’indice ROE o EBITDA e i dividendi sono soddisfacenti, l’attività può continuare, altrimenti si investe in altri settori. Con buona pace di migliaia di persone che restano disoccupate.
Non c’è etica negli affari e la contrapposizione tra datori di lavoro e dipendenti esiste da sempre. L’imprenditore rincorre il guadagno, il lavoratore subordinato, mediante retribuzione, collabora e presta il proprio lavoro intellettuale o manuale alle sue dipendenze e sotto la sua direzione.
I profitti dell’imprenditore permettono di pagare i salari, ma il salario rappresenta una variabile che influenza in modo negativo il profitto. Nessuno dei due soggetti fa beneficenza. Entrambi sono fondamentali per produrre beni e servizi. Entrambi sono indispensabili l’uno per l’altro.
Sindacati e istituzioni politiche, invece di scandalizzarsi, dovrebbero partire da questi presupposti per un approccio intelligente, costruttivo e pragmatico al mercato del lavoro, tutelando chi ha meno potere contrattuale.
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