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Quelli che detengono le maggiori risorse stanno ormai raggiungendo i limiti di quanto possono accumulare, ma non possiamo attendere che questa realtà diventi chiara anche ai milioni di persone spaventate dall’idea stessa di dover rinunciare a ciò a cui sono abituate o che hanno sempre desiderato.
Togliere a quelli che hanno troppo o loro toglieranno tutto agli altri
Il titolo può far pensare a una scorciatoia massimalista per affrontare le grandi sfide del nostro tempo ma, a parte l’effetto richiamo, la questione è reale.
Blaise Pascal, nel XVII secolo, affermava che “tutti i mali degli uomini derivano da una sola causa: il fatto che non se ne restino tranquilli in una camera”. Con questa osservazione, il filosofo francese sottolineava una contraddizione fondamentale della condizione umana: la socialità, che ci permette di evolverci come specie e di dare senso alla vita, è anche fonte di inquietudine e conflitti.
Oggi questa riflessione assume nuove sfumature, in un mondo sempre più interconnesso ma anche fragile. La mobilità, percepita come un diritto e talvolta una necessità, presenta un rovescio della medaglia.
L’aumento dei viaggi internazionali e delle esperienze globali, pur arricchendo culturalmente molti, comporta costi ambientali elevati e rischia di distruggere tradizioni locali, indebolendo le comunità e promuovendo un’omogeneizzazione culturale.
Paradossalmente, prima della pandemia, nel 2018 solo il 2% della popolazione mondiale aveva viaggiato fuori dai propri confini nazionali. Tuttavia, questa piccola élite cosmopolita, appartenente alle fasce più benestanti, influenza in modo sproporzionato le dinamiche globali, spesso ignorando i costi sociali e ambientali delle proprie abitudini.
La pandemia come specchio delle contraddizioni del sistema. E poi la guerra
La crisi pandemica – che pare già un ricordo lontano – ha invece evidenziato i limiti del modello liberista. Dopo decenni di deregulation, i governi sono stati costretti a riscoprire il ruolo dello Stato per gestire un’emergenza globale. Le misure drastiche adottate, come lockdown e quarantene, sono servite non solo a contenere il virus, ma anche a mantenere un fragile equilibrio sociale.
Tuttavia, queste azioni hanno evitato una riflessione più profonda sui danni del consumismo e della deregulation. Al contrario, si è continuato a promuovere valori individualisti come la libertà e la felicità personale, ignorando il bisogno di sacrificarsi per il bene comune.
Dal punto di vista economico e ambientale, viviamo su risorse in esaurimento. Già dagli anni ’70 l’umanità sta consumando i risparmi accumulati dalle generazioni precedenti, mentre il ritorno della guerra in Europa ha ulteriormente aggravato la situazione.
Il già traballante welfare europeo è sotto attacco nel nome della lotta per difendere “i nostri valori” dall’avanzata delle ‘autarchie’ e dunque le risorse vengono spostate verso il riarmo. Le armi sono uno straordinario volano economico ma…per i soliti noti. E gli altri?
Come spesso accade, sarà compito delle persone di buona volontà – una dote che appare un residuo letterario novecentesco – assumersi la responsabilità del cambiamento. In che modo? Attraverso l’organizzazione, la disciplina e un atteggiamento più risoluto, al limite della ‘sgarbatezza programmatica’. Perché nel medio e lungo termine le alternative sono solo due: o si toglie molto a quelli che hanno troppo o loro toglieranno tutto a chi ha poco.
Non possiamo permetterci di aspettare che la realtà diventi chiara anche a quei milioni di persone che temono perfino l’idea di rinunciare a qualcosa a cui si sono abituate, fosse anche solo un desiderio o un sogno. Ancor meno possiamo attendere che si mobilitino per far gravare i costi del cambiamento su chi detiene le ricchezze e il potere.
Lo stiamo vedendo: piuttosto che vedere mutato lo status quo sono arrivati a discutere di guerra nucleare come se fosse qualcosa di possibile, ‘limitato’, gestibile. Quando si renderanno conto della situazione, potrebbe essere già troppo tardi.
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