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Oggi Trump parla di tregua e di pace ma appena 48 ore fa ha colpito l’Iran senza prove certe né autorizzazione del Congresso, ignorando l’intelligence USA e affidandosi a Israele. Una mossa azzardata che ha rischiato (e ancora non è scongiurato) di scatenare una guerra inutile. Crescono critiche e richieste di impeachment.
Trump e l’Iran: un attacco incauto che ha spaccato l’America
Con l’attacco agli impianti nucleari iraniani, Donald Trump ha commesso un errore strategico che potrebbe avere conseguenze devastanti, sia sul piano internazionale sia sul fronte interno. La decisione, maturata al di fuori di un qualsiasi processo di deliberazione parlamentare, ha generato un’ondata trasversale di critiche.
A Capitol Hill, i coltelli sono già affilati: progressisti e conservatori, repubblicani moderati e democratici, indipendenti e militari in disaccordo hanno trovato un terreno comune nella condanna di un’azione giudicata avventata, opaca e priva di legittimità costituzionale. Alexandria Ocasio-Cortez evoca apertamente l’impeachment, mentre il senatore Tim Kaine propone una risoluzione per limitare l’autorità militare presidenziale in assenza di una dichiarazione formale di guerra.
Il problema, tuttavia, non è solo legale: è politico, strategico e morale. Perché Trump ha agito in questo modo? A chi giova un’escalation contro Teheran? Le informazioni usate per giustificare il blitz – secondo molteplici fonti – non provengono dalla comunità d’intelligence americana, bensì da Israele.
I Servizi statunitensi avevano indicato che l’Iran non era in possesso imminente dell’arma atomica, e che eventuali sviluppi erano proiettati su un orizzonte di almeno due anni. Eppure, il presidente ha preferito credere alla versione del Mossad. Un fatto che solleva interrogativi inquietanti su conflitti d’interesse, pressioni esterne e alleanze non trasparenti.
Il rischio di una guerra senza scopo e la tregua improvvisa
Se l’obiettivo era “cambiare regime”, come affermano apertamente diversi ministri del governo Netanyahu, il prezzo potrebbe essere altissimo. L’idea di rovesciare il potere teocratico iraniano con bombardamenti e destabilizzazione diretta, senza una chiara strategia politica, sembra ricalcare i peggiori errori del passato americano in Medio Oriente. Le analogie con l’Iraq sono lampanti, e anche i commentatori più moderati del Washington Post denunciano l’assenza di una visione strategica. L’amministrazione Trump appare guidata da impulsi e narrazioni semplicistiche, più che da una reale analisi geopolitica.
Nel cuore dell’apparato decisionale statunitense, intanto, regna il caos. Le descrizioni della Situation Room ricordano un tragicomico teatro dell’assurdo: generali in competizione tra loro per mostrare muscoli, un capo del Pentagono più simile a un venditore di retorica militare che a uno stratega, e un Segretario di Stato – Marco Rubio – più ossessionato dalla Cina che competente sul Medio Oriente. A completare il quadro, l’ex direttrice dell’intelligence Tulsi Gabbard è stata silenziata dopo aver difeso il lavoro delle agenzie federali, mentre la nuova CIA si limita ad assecondare la linea presidenziale.
Nel frattempo, le tensioni innescate rischiano di infiammare l’intera regione. Una tregua precaria non è bastata a rassicurare né l’opinione pubblica statunitense né i partner internazionali. La percezione che dietro l’attacco ci siano motivazioni personali, pressioni esterne o interessi poco chiari mina ulteriormente la credibilità dell’azione americana. Come ha sintetizzato amaramente un commentatore: questa non è una partita a poker, è un’improvvisazione pericolosa, dove le vite umane sono in gioco.
E poi, quasi a capovolgere ogni rpevisione, stanotte arriva l’annuncio a sorpresa: il presidente americano in un post comunica l’accordo tra i due paesi per un cessate il fuoco e per la fine di quella che, parole sue, “verrà chiamata la guerra dei 12 giorni”. Si congratula con Tel Aviv e Teheran per “la resistenza, il coraggio e l’intelligenza dimostrati”.
Trump, più che uno stratega, sembra un giocatore di zecchinetto con in mano le chiavi di una superpotenza.
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