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Trump, i dazi e l’illusione del commercio: cosa si nasconde dietro la guerra dei Tariff Day

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I dazi imposti da Donald Trump – e ribattezzati mediaticamente “Tariff Day” – non sono soltanto un provvedimento commerciale o un gesto isolato in nome del protezionismo. Sono, al contrario, il sintomo visibile di un disegno ben più ampio: una ricontrattazione dell’ordine globale da una posizione di forza. La mossa, brutale ma studiata, è parte integrante di una strategia multilivello che punta a ridisegnare il ruolo egemone degli Stati Uniti su scala planetaria.

Trump, i dazi e l’illusione del commercio

Trump non gioca su un solo tavolo. Con l’imposizione dei dazi, apre simultaneamente decine di negoziati paralleli: dal riequilibrio delle importazioni alla rinegoziazione delle delocalizzazioni industriali, dal rilancio della manifattura statunitense all’incentivo alla vendita di armamenti.

Si tratta di uno schema “a tenaglia” che mira, con una sola mossa, a ottenere concessioni in ambiti apparentemente non collegati, ma in realtà interdipendenti: tecnologia, relazioni diplomatiche, finanza globale, alleanze militari.

L’obiettivo non è solo quello di proteggere l’industria americana, ma di costringere gli attori internazionali a sedersi al tavolo delle trattative con Washington, consapevoli che dietro ogni tariffa c’è una trattativa ben più vasta.

I dazi diventano così leva negoziale, spada di Damocle sospesa sulla testa dei partner commerciali e, al tempo stesso, segnale politico chiaro: gli Stati Uniti non intendono più subire passivamente le conseguenze della globalizzazione, ma vogliono riscriverne le regole.

Naturalmente, questa strategia ha costi interni: le misure protezionistiche possono innalzare i prezzi per i consumatori statunitensi, ostacolare l’accesso a beni strategici o scatenare ritorsioni economiche. Ma per l’amministrazione Trump il sacrificio è calcolato e compensato dalla prospettiva di una ricollocazione industriale nazionale e di un rafforzamento del potere contrattuale USA.

Il punto centrale, tuttavia, non è l’efficacia immediata della misura, ma il suo valore simbolico e strategico. Trump, diversamente da molti leader europei, sembra avere una visione – condivisibile o meno – di lungo periodo.

La “guerra dei dazi” non è improvvisata: era ampiamente annunciata già mesi prima della sua elezione. Chi oggi si mostra stupito, probabilmente ha peccato di miopia o di sottovalutazione. E soprattutto, manca di una strategia alternativa.

Perché in un mondo che si sta polarizzando, l’assenza di una visione geopolitica strutturata rischia di trasformare le reazioni scandalizzate in irrilevanza. E i dazi di Trump, più che una misura economica, sembrano un test di realtà per l’intero ordine internazionale.

Elenco dei paesi colpiti dai dazi americani, con le rispettive aliquote applicate

  • Cina: 30% (50%)
  • Unione Europea: 20%
  • Vietnam: 46%
  • Taiwan: 52%
  • Giappone: 24%
  • India: 26%
  • Corea del Sud: 25%
  • Thailandia: 35%
  • Svizzera: 31%
  • Indonesia: 32%
  • Malesia: 29%
  • Cambogia: 49%
  • Regno Unito: 10%
  • Sudafrica: 30%
  • Brasile: 30%
  • Bangladesh: 37%
  • Singapore: 10%
  • Israele: 17%
  • Filippine: 17%
  • Cile: 10%
  • Australia: 10%
  • Pakistan: 29%
  • Turchia: 10%
  • Sri Lanka: 41%
  • Colombia: 10%
  • Perù: 10%
  • Nicaragua: 18%
  • Norvegia: 15%
  • Costa Rica: 17% → 10%
  • Giordania: 10%
  • Repubblica Dominicana: 10%
  • Emirati Arabi Uniti: 10%
  • Nuova Zelanda: 10%
  • Argentina: 10%
  • Ecuador: 10%
  • Guatemala: 10%
  • Honduras: 0%
  • Madagascar: 47%
  • Myanmar: 41%
  • Tunisia: 28%
  • Kazakistan: 27%
  • Serbia: 37%
  • Egitto: 10%
  • Arabia Saudita: 10%
  • El Salvador: 10%
  • Costa d’Avorio: 21%
  • Laos: 48%
  • Botswana: 37%
  • Trinidad e Tobago: 10%
  • Marocco: 10%

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