L’intervista rilasciata da Michela Murgia ad Aldo Cazzullo ci lascia un’unica verità a cui abbiamo accesso in forma incarnata: parlare in nome proprio, mai più per conto terzi. Dire il vero.
Michela Murgia, o sul dono della parresia
L’intervista rilasciata da Michela Murgia ad Aldo Cazzullo è bellissima in ogni suo passaggio, e sono d’accordo anche con ciò con cui non mi trovo d’accordo; ad esempio che questo governo sia fascista, quando a me sembra solo piccino piccino, e ignorante.
L’accordo a cui mi riferisco non è dunque sui contenuti, ma sulla disposizione nei loro confronti; contrariamente a quanto la sua condizione fisica potrebbe fare supporre, una disposizione niente affatto emotiva. Quasi, e per una volta, appare cinica, non più ideologica come di frequente l’ho avvertita nel passato. Ad esempio quando parla di bambini.
“I bambini rompono i coglioni. Tutti i bambini. Non è vero quel che dicono, che i figli sono maleducati per colpa dei genitori; prima o poi un bambino anche educatissimo piangerà, si lamenterà, disturberà, sconvolgerà il vagone del treno su cui viaggio, prenderà a calci il sedile su cui sono seduta in aereo.”
Un’analisi da applauso, come non averci pensato prima?! L’essenza della bambinità è rompere i coglioni. Dopo averlo letto mi risulta talmente evidente da chiudere ogni discorso, replica, simposio di psicologi dell’età evolutiva.
Ma per poter pronunciare la nudità del re, l’evidenza spazzata sotto al tappeto da una consuetudine, indifferentemente, virtuosa o viziosa, è necessaria una qualità che Murgia possiede al massimo grado, e che gli antichi greci chiamavano parresia – più che schiettezza potremmo tradurlo con dire la verità, costi quel che costi.
A lei sta costando la vita, se pensiamo a ciò che dice del tumore al quarto stadio e con metastasi: non qualcosa che ‘ha’, ma che ‘è’ aggiunge. E da questo essere (maligno lo chiama la medicina, un aggettivo che sembra ricalcato dalla teologia) ha guadagnato il dono più prezioso per gli uomini, che non è il fuoco rubato da Prometeo agli dèi ma la verità pronunciata da Socrate.
È con lo stesso atteggiamento che Murgia si accinge a bere la sua cicuta, lasciandoci come eredità – speriamo il più tardi possibile – la consapevolezza che siamo tutti morituri salutanti; ma anche, riflesso dell’ultimo congedo, ricolmi di vita, tanta di quella vita da non poterla più mistificare in chiacchiera, si dice così, si fa cosà… Ma chi lo dice, chi lo fa?
Ed ecco l’unica verità a cui abbiamo accesso in forma incarnata: parlare in nome proprio, mai più per conto terzi. Dire il vero, la parresia, a uno sguardo moderno e disincantato non coincide infatti con un oggetto invariabile e certo, un cosa, ma un come. Esprimere interamente la parte a cui si coincide per esperienza e studio e prospettiva individuale, non emulazione.
O per dirla nuovamente con le parole della filosofia: “diventa ciò che sei!” Anche quando in quell’essere finalmente autentico, le traiettorie del branco riconsegnate a uomini-lupo o bisonte, è compreso l’optional non gradito di un tumore.
Da questa sintesi paradossale (coincidentia oppositorum) i più sensibili e meno pregiudicati di noi ricavano il medesimo talento, senza la necessità di infilare un piede, o come nel caso della scrittrice sarda un rene, nell’abisso dove smettiamo di scrivere un’autobiografia senza finale, per diventare biografia rinarrata nel ricordo di chi ci ha voluto bene.
Perciò, da oggi, sento di volerle un poco di bene anch’io, avverto Michela Murgia parte della mia parte. E in cu(bip!) ai bambini che rompono i coglioni sul treno.
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