Il nuovo tassello della stagioni di Luca Ricci, Gli Estivi, è un viaggio visionario nella borghesia romana, annoiata e decadente.
Luca Ricci, Gli estivi e i meccanismi dell’amore
È un privilegio leggere Gli estivi (Luca Ricci, La Nave di Teseo 2020) nei mesi caldi, con il frinire delle cicale mollemente addossato alle finestre; frame di Bianca di Nanni Moretti che passano veloci come nuvole sulla fronte, e nell’aria Estate di Bruno Martino.
Ricci scrive bene, forse meglio nel romanzo breve che nel racconto. Affronta le dissonanze della psiche con l’armonia di una scrittura calibrata e consapevole.
Le onde lente suo discorso trasportano nelle abitudini della borghesia colta romana, annoiata e decadente – e per questo snob – quanto i personaggi sorrentiniani.
I vecchi
Indifferenti, gli uomini di mezza età che Ricci impietosamente carica con l’accezione di vecchi, cercano, in modo patetico, di fuggire dalla realtà, mescolandosi alle ventenni che consumano apericene (un brutto neologismo da eliminare).
Se il Paul Sheldon di King trovava una via di fuga nella letteratura, allo scrittore in crisi – il protagonista, nei fatti impiegato agli studi RAI – non basta. Lo scrittore svicola dal suo blocco creativo e dall’istituzione matrimoniale attraverso l’ossessione del desiderio.
Il desiderio stanco si affanna sui corpi delle amanti e sull’immagine di una ragazza pallida e mora. Anche qui, come ne Gli autunnali, torna l’arte; non più in un ritratto fotografico, ma in un quadro: la meravigliosa Circe di Waterhouse, un dipinto tardo ottocentesco.

Il mito dell’amore romantico si logora per sottrazione in tredici estati, mostrando quanto sia necessario alla sopravvivenza, ma sopravvalutato.
Nell’assenza di una conoscenza reciproca si svelano gli ingranaggi dell’infatuazione e, per contrasto, viene sottolineata la presenza costante e quasi simbiotica della moglie in fondo amata, compagna e amica, paziente, sincera.
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Gli estivi, una lettera d’amore
Nonostante egli parli di un’altra donna, Gli estivi è una lettera d’amore per colei che si muove sul fondo, la bionda Penelope. Lei che attende il ritorno del suo uomo dai pellegrinaggi sul lungo mare, dai sogni ad occhi aperti durante le interminabili code in autostrada per arrivare al Circeo.
Ricci non svela soltanto i meccanismi dell’amore, ma anche quelli dell’editoria, senza risparmiare nessuno nelle lunghe digressioni – esageratamente prolisse e virtuosistiche, a volte – dello scrittore e del suo editore, legati da una grande amicizia molto prima che da un rapporto professionale, un Camus e un Gallimard moraviani e grotteschi.
L’editoria appare come il salotto di una casa abbandonata, un sottobosco imputridito nel quale ogni ideale viene corrotto. Al Gittani de Gli autunnali si sostituisce Lello Annibali, l’editore satiro, fallito, bizzarra vestale del tempio letterario.
Non a caso il libro termina con una scena in bilico tra orgia e stupro, a testimoniare una stagione che nel suo turgore contiene già il presagio del disfacimento.
Ci salveremo? Cosa leggeranno i nostri vicini di ombrellone? Un “Claudio Mordano” qualunque, con il sottofondo dell’ultima hit reggaeton? Oppure uno dei tanti classici citati da Ricci, sulle note di Sapore di mare?
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