Parliamo del lavoro, visto che il PD non lo fa nemmeno sotto tortura, e che il governo Draghi fortunatamente non ci ha ancora messo mano. Ma la prendiamo alla lontana, esaminando il linguaggio del lavoro con le diverse e talora stranianti terminologie in uso nel nostro Paese.
Il linguaggio del lavoro: lavori in corso
Un tempo la dicitura universale era “lavori in corso”, cui il codice della strada associa ancora oggi il pittogramma con l’omino che spala un mucchio di terra. Si noti che si parla di “lavori” in maniera del tutto impersonale, per cui il messaggio è “o viandante, poni attenzione al tuo cammino, lungo il quale troverai inciampi cagionati dalla febbrile opra dell’Uomo”.
Homo faber come idea filosofica, non come cristiano in carne ed ossa del quale poco cale: infatti i cantonieri venivano falciati in gran copia, certamente a causa dei giacconi cerati tipo Barbour rimasti in uso fin oltre la metà del ‘900, meno visibili delle odierne pettorine gialle o arancioni con bande fluorescenti.
Operai al lavoro
Negli anni la sicurezza dei cantieri è migliorata in termini di prevenzione, ma lungo le strade molto è ancora affidato al comportamento dell’automobilista, per cui bisogna sempre avvisarlo della presenza di lavori. E che cosa c’è di meglio dei pannelli luminosi a messaggio variabile? Una ventina di anni fa si cominciò con questa scritta, nella quale si può apprezzare lo stridente contrasto fra le due lingue.
L’inglese è un idioma tendenzialmente democratico e ugualitario (ad esempio il “lei” si dà solo a “Her Majesty the Queen” e a pochi altri), quindi abbiamo semplicemente i men at work, “uomini al lavoro”. (Si potrebbe obiettare che la scritta non è inclusiva perché parla solo di uomini e non di donne, ma innanzitutto
lo spazio per scrivere non è infinito, e poi non mi pare di avere mai visto donne rifare l’asfalto sotto il solleone, né tampoco rivendicare il diritto di svolgere tale attività, il che dimostra la loro superiore astuzia).
L’italiano ha una gamma di significanti molto più ampia, che consente di lumeggiare alcune importanti sfumature: e allora ecco gli operai al lavoro, e cioè “qui, esposti alle intemperie e al rischio di essere travolti, lavorano gli operai, non vi aspettate di trovare impiegati né quadri, figuriamoci i dirigenti” (o almeno così l’ho interpretata).
Presenza di operai
La società cambia e con essa il linguaggio. A fronte dell’immutabile men at work, gli operai si limitano alla presenza: d’altra parte si sa che sono dei lazzaroni, appena il capocantiere si allontana essi ne approfittano per oziare. Il problema, caro lei, è che l’Italia l’hanno rovinata i sindacati.
Uomini in strada
Questa è la più recente. Hanno perso la qualifica di operai, probabilmente la pratica del sub-sub-sub-subappalto fa sì che non si sappia nemmeno se gli addetti sono dipendenti o a partita IVA oppure del tutto in nero. Poi è chiaro che meno paghi, meno hai, per cui costoro non garantiscono neppure la presenza in cantiere e bighellonano sulla carreggiata.
Lavoratori? Prrrr
Nel diritto del lavoro e sindacale la terminologia è (era) molto semplice: datore di lavoro da una parte, lavoratori dipendenti dall’altra. Perciò la parola ha un portato di diritti, di coscienza di classe (si può dire?), e allora col venire meno dei diritti cambiano anche le parole. A voi una tassonomia.
Operai: un tempo lo usavano i sindacalisti come sineddoche per “lavoratori”, dal momento che erano la maggioranza dei loro iscritti.
Il termine non piace né ai datori di lavoro, ai quali fa tornare alla mente l’epoca dei volantini con la stella a cinque punte, né ai lavoratori stessi, perché li identifica come quelli che dopo 8 ore al suono della sirena staccano e vanno a casa (fortunatamente hanno fatto studiare i figli, che così possono stare 10-12 ore al giorno in ufficio per una paga inferiore a quella dei loro genitori; sempre che li paghino, perché stanno facendo un’esperienza che farà un figurone nel curriculum e quindi…).
Comunque è roba del passato, le delocalizzazioni del manifatturiero li hanno fatti sparire dal tessuto economico e sociale prima ancora che dal linguaggio.
Maestranze/manodopera: altro vocabolo desueto, è più o meno sinonimo di operai (come al solito l’inglese vince in chiarezza con blue collars) ma contiene una punta di disprezzo, ad oggi non lo usano nemmeno i direttori di Confindustria ma solo perché non hanno la ricchezza di linguaggio che con le loro camicie bianche vorrebbero dare a intendere.
Salariati: mica vorremo restare ancorati alla primitiva e volgare dazione economica del 27 del mese, vero? E addirittura di ogni mese! Non scherziamo
Personale: comprende anche i white collars, è l’insieme di tutti dipendenti di un’azienda. Nel tempo si è trasformato in human resources in ossequio al nuovo latinorum, ma non va più bene nemmeno così, perché ricorda il tempo in cui chi lavorava in azienda era a libro matricola proprio di quell’azienda (vedi voce successiva).
Workforce: ecco qua una bella parola che identifica chiunque lavori per un’azienda ma non è necessariamente da essa direttamente stipendiato. Interinali, terzisti, soci fittizi di cooperative altrettanto fittizie, tirocinanti, borsisti, tutti felici perché comunque qualche soldo lo portano a casa. E rendono felici anche i dipendenti dell’azienda che li utilizza, i quali ogni giorno guardano gli esterni e si dicono “mi poteva andare peggio”.
Headcount: quando sentite questo vocabolo vuol dire che il quartier generale di San Diego o di Parigi ha deciso di ridurre il costo del lavoro della filiale italiana, cioè di licenziare o esternalizzare una buona parte di voi. Rivolgete una preghiera a San Giuseppe.
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