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Eduardo De Filippo: Le voci di dentro ci parlano dell’oggi

Il 24 maggio del 1900, esattamente 120 anni fa, nasceva Eduardo De Filippo. Le voci di dentro, tra le sue opere più complesse, è ancora drammaticamente attuale.

Eduardo De Filippo: Le voci di dentro, il furore, l’amore

È stato uno dei maggiori artisti italiani del Novecento, autore prolifico, originale e rivoluzionario: con la sua dedizione totale, dittatoriale e severa al teatro, alla sua arte, ci ha lasciato un immenso materiale e infiniti spunti su cui riflettere. È stato interprete di una realtà sfuggente e spesso crudele, tra le pieghe delle risate amare che sapeva regalare.

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“Lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro.”

Figlio d’arte illegittimo di Eduardo Scarpetta, Cosi scriverà nella sua nota autobiografica dei primi anni Settanta:

“Mi ci volle del tempo per capire le circostanze della mia nascita perché a quei tempi i bambini non avevano la sveltezza e la strafottenza di quelli d’oggi e quando a undici anni seppi che ero ‘figlio di padre ignoto’ per me fu un grosso shock. La curiosità morbosa della gente intorno a me non mi aiutò certo a raggiungere un equilibrio emotivo e mentale. Così, se da una parte ero orgoglioso di mio padre, della cui compagnia ero entrato a far parte, sia pure saltuariamente, come comparsa e poi come attore, fin dall’età di quattro anni […], d’altra parte la fitta rete di pettegolezzi, chiacchiere e malignità mi opprimeva dolorosamente. Mi sentivo respinto, oppure tollerato, e messo in ridicolo solo perché ‘diverso’”

Oggi, in questi giorni di pandemia mondiale, ci sono sue parole che risuonano con rinnovato vigore e nuovo senso. Pensiamo alla Fase 2, alla ripartenza, come sorta di nuovo dopoguerra. Eduardo De Filippo tornando a recitare nel 1945, subito dopo la Liberazione, annunciò di aver abbandonato le vecchie farse e il sodalizio col fratello Peppino:

“Ogni anno di guerra ha contato come un secolo della nostra vita di prima. Davvero non è più il caso di tornare a quelle vecchie storie. Questi fantasmi ha un primo atto che si riallaccia a quel genere: le conseguenze della guerra viste attraverso la lente della farsa. Ma dopo statevi attenti, è il dopo che conta!

Ma ancor di più soffermandoci su una delle sue opere più geniali e innovative, Le voci di dentro (1948) completamente incentrata sulla metabolizzazione del senso di colpa, connaturale alla nostra essenza umana, ma più ancora su ciò che la nostra società, e le sue dinamiche  perverse, ci costringono a credere, anche quando non sappiamo quanto ci sia di vero. Il dubbio che tormenta, come un virus.

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La storia raccontata da De Filippo, apparentemente semplice, ha il suo baricentro nella figura di Alberto Saporito.  Egli è sicuro che i vicini di casa, la ricca famiglia Cimmaruta, abbiano ucciso un suo amico, Aniello Amitrano, e abbiano nascosto in casa dei documenti che lo proverebbero. La sua certezza è tale che riesce a farli arrestare dalla Polizia: ma, ecco il primo colpo di scena, dopo essere entrato in casa dei Cimmaruta, per cercare i documenti, drammaticamente si rende conto di aver sognato il tutto.

Da lì, inizia l’incubo di Alberto. Tra i sospetti dell’autorità su di lui (perché ha ritirato la denuncia? Cosa nasconde?), la paura della vendetta dei Cimmaruta e le interferenze del fratello che cerca di cavare un profitto, seppur misero da questa vicenda.

C’è il baratro della contemporaneità in questa vicenda: l’uomo solo davanti al dubbio logorante. La realtà che si trasfigura. L’ordine costituito che da amico diventa incombente minaccia. La pochezza degli esseri umani pronti a tradire e speculare su tutto, la delazione da parte degli affetti più cari.

Le Voci di Dentro: E muorte so’assaie

 

A questo punto, nell’opera, inizia una girandola di colloqui di ogni singolo componente della famiglia Cimmaruta con Alberto.

Ognuno di questi, con sorprendente gentilezza, confida ad Alberto che ha ragione, che i propri parenti sono gli assassini di Aniello. Delle vere e proprie confessioni, intrise di odio, risentimento, rancore, che ogni singolo familiare, all’insaputa dell’altro, sputa fuori con imprevedibile rancore.

Ma il presunto morto, lo scomparso Aniello, ritorna, e allora Alberto, senza dire nulla, parla alla famiglia Cimmaruta al suo completo.

Il j’accuse è durissimo: anche se non assassini materiali lo sono moralmente. Hanno pensato che ciascuno di loro fosse l’assassino, accusando e complottando alle spalle degli altri.

Nessuno, ha il coraggio di replicare alle accuse, ammettendo con lo sguardo basso il loro peccato.
La matrice della colpa è in quel coacervo di invidie, gelosie, dispetti reciprochi, bassezze umane, che spesso le famiglie contengono al loro interno, e ancora più frequentemente nel rapporto con l’esterno.

E anche lui, Eduardo, ne è vittima. Infatti il suo personaggio aveva sognato che Aniello era stato ucciso dai Cimmaruta. Perché questo è il messaggio del suo inconscio, che riemergeva nel sogno: anche lui sospetta degli altri. Anche lui è colpevole.

A questo abominio, che è la convivenza umana, c’è una reazione in quest’opera, ed è nel personaggio di Zì Nicola, uno zio di Alberto che vive in un soppalco all’interno della casa. Zì Nicola non parlava più da anni. Comunicava con petardi, una sorta di codice che solo Alberto riusciva a decodificare. È il suo negarsi verso l’umanità con la quale rifiuta di dialogare.

È il suo definitivo: io resto a casa.

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Marquez
Marquez
Corsivista, umorista instabile.

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