Uno dei più noti autori contemporanei di aforismi, Nicolae Petrescu-Redi, scrive: “Quando la sala del teatro è piena, i polmoni dell’attore hanno meno ossigeno. Ma il cuore...”
Una massima più che appropriata se la rapportiamo al fermo delle rappresentazioni dal vivo dopo l’avvento del coronavirus.
Una verità inconfutabile sia dal punto di vista squisitamente chimico-organico – più gente in sala, meno ossigeno – che soprattutto da quello professionale.
L’immedesimazione dell’attore è totale solo se il lavoro sul carattere e la psicologia sul personaggio è affiancato da uno specifico lavoro sul corpo che prevede un coinvolgimento totale di tutto l’apparato fisico le cui particelle dinamiche vengono percepite nello spazio scenico in cui l’attore si muove in quel preciso momento.
Ed è solo il pubblico in sala ad avere il privilegio di sentire l’attore, le sue emozioni, il suo cuore, un sentire che va ben oltre la rappresentazione stessa.
Ecco, è proprio in questa percezione, in questo intimo sentire, che la rappresentazione dal vivo si differenzia da altre discipline artistiche perché porta con sé un’esperienza emozionale che non ha eguali in quanto originale.
E non va confusa con il cinema la cui unicità è caratterizzata dalla commistione perfetta di altri elementi (montaggio, inquadrature, fotografia, ecc.) che nulla hanno a che vedere con il teatro. Si tratta quindi di due espressioni artistiche ben diverse.
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È per questo motivo che trovo insensato e imbarazzante ovviare alle restrizioni imposte dalla pandemia portando il teatro nello schermo.
Il famoso Netflix della cultura di cui tanto si parla è uno schiaffo alla più antica rappresentazione visiva. Sarebbe come chiedere a un pittore di farsi riprendere da una telecamera mentre dipinge, anziché ammirare dal vivo la sua opera.
Anacronismo
Citare le prime esperienze televisivo-teatrali del secolo scorso non serve a nulla perché nel frattempo il linguaggio cinematografico si è notevolmente evoluto diventando un’arte che ha superato la staticità di un tempo quando gli sceneggiati si giravano nei teatri di posa oppure si rendeva omaggio al grande Eduardo con la ripresa video delle sue indimenticabili commedie.
Se ci pensiamo bene, di quel periodo, oggi si apprezza la portata del ricordo emotivo (individuale e familiare), una grande testimonianza dal punto di vista documentaristico, ma non più un’emozione reale, tangibile che solo il pubblico del teatro poteva vivere.
Anche l’esperienza più recente di Massimo Ranieri nella sua riproposizione televisiva di alcuni classici di Eduardo non resterà nella storia.
Sono i tempi ad essere cambiati.
La bulimia ricettiva contemporanea
Ci troviamo in un’epoca in cui il web e la tecnologia richiedono a ogni esperienza di essere consumata velocemente, le nuove generazioni sono ormai vittime inconsapevoli di una sequenza continua di immagini, colori, cambi repentini di stili e argomenti, vecchie schermate che si chiudono e altre nuove che si aprono, azioni immediate, costruzioni e distruzioni istantanee.
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In sostanza il loro tempo di assorbimento dell’esperienza emozionale si è ridotto ai minimi termini. Tant’è vero che la gran parte dei giovani non legge più i libri perché le pagine vengono percepite dal loro cervello come uno strumento di comunicazione troppo lento-
Per lo stesso motivo non vanno a teatro perché non riescono a godere della performance viva e reale dell’attore, della sua comunicazione istantanea non se ne fanno nulla.
Ma la colpa non è soltanto loro.
Il senso dello stupore
Ricordiamoci che i giovani amano il teatro solo se il teatro ama i giovani.
Da bambini si aspettano che il teatro li stupisca con effetti speciali, come al cinema, e da giovani adulti li troviamo in fila al botteghino ad acquistare il biglietto del comico televisivo di turno con il solo intento di sganasciarsi dalle risate secondo il modello della stand up comedy.
Già da molto tempo, e ben prima del virus, infatti, il teatro vive una serie di problemi ancora irrisolti che la pandemia non ha fatto altro che evidenziare e amplificare:
Un problema di linguaggio, di coinvolgimento, di rinnovamento, affiancati dalla mancanza di un reale sostegno economico alle strutture teatrali tutte, di accesso ai fondi, di garanzie certe per le piccole sale.
Per non parlare della tutela dei diritti dei lavoratori dello spettacolo (artisti, tecnici, ecc.), una categoria completamente dimenticati dai nostri governanti
Il futuro
E per finire, voglio dirlo senza l’intenzione di offendere nessuno e senza generalizzare, il problema di un settore è che troppo spesso parla a sé stesso, autoreferenziale e narcisistico.
Il teatro è spesso vittima di una folta schiera di attrici e attori che pur di riprendere a recitare domani sarebbero capaci di passare sul cadavere dei propri genitori e che si indignano, addirittura, per la mancata ripresa o messa in scena dei propri monologhi mentre accanto a loro c’è gente impegnata in turni di lavoro massacranti per salvare vite umane o per garantire l’acquisto di beni di prima necessità.
Il futuro è incerto, il sostegno manca, quindi dobbiamo far sentire la nostra voce ricordando a tutti, e in primis a se stessi, che non c’è teatro senza attori consumati dal sudore, senza goccioline di saliva che schizzano sulle prime file, senza aliti pesanti e grugniti di stomaci borbottanti che esplodono di amore per questo lavoro.
E allo stesso modo non c’è teatro senza un pubblico fatto di mani, gomiti e gambe sconosciute che dapprincipio si sfiorano sul velluto delle poltrone poi si ritraggono per l’imbarazzo, dopodiché si abbandonano al contatto comune in preda ad una sorta di trance teatrale emotiva che sempre e solo dal vivo potrà avere luogo.
In altre parole, non c’è teatro se non si fa l’amore col teatro.
Carmelo Bene: Cos’è il teatro?
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