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Gildo Cane: un partigiano a Mauthausen

Gildo Cane, partigiano, amico di Beppe Fenoglio, deportato a Mauthausen nel 1944: il racconto di quei tragici anni.

Gildo Cane, l’esercizio della memoria

Uno dei doveri incombenti di ogni generazione che si succede è quello di coltivare e vivificare la memoria. Più ancora se si tratta di un immondo passato. Solo così può definirsi realmente passato.

Un passato che non passa, che passato è?, si domandava Hegel.

A tal fine, ci resta ancora molto da imparare in questo presente gravido di tensioni e rischi.

Dunque l’esercizio della memoria, fuori anche da date e ricorrenze. Una pratica dolente e necessaria.

Per questo oggi, in una giornata estiva come tante di questo tortuoso 2020, vogliamo ricordare Gildo Cane.

Partigiano, nato ad Alba, la piccola città piemontese entrata nella storia della resistenza italiana, deportato prima a Dachau e poi a Mauthausen, matricola 89229, fu amico di Beppe Fenoglio.

Gildo Cane è morto nel giugno del 2019. Della sua esperienza non parlò quasi mai tutta la vita, tranne qualche breve ricordo per un quotidiano locale nel 2004.

Questo è il suo racconto di quegli anni.

Gildo Cane

«Ero studente, al liceo Govone. Si respirava antifascismo. In realtà, dopo il ’43, molti cambiarono rotta. Ma c’erano gli infiltrati. Arrestarono alcuni miei compagni. Forse mi ero esposto. Alcuni ebbero paura. Così, nel marzo del ’44, decidemmo di salire la collina, di andare con i partigiani.

Non avevo la politica nel sangue. Ero con Ettore Costa, Luciano Parolo, Beppe Lovisolo e Aldo Cerrato. Sono tutti morti, ora. Ci indirizzarono oltre confine. Dissero che sarebbe stato meglio. Qualcuno, però, ci tradì. I tedeschi ci presero vicino a Redipuglia. Finimmo alla risiera di San Sabba, a Trieste. Lì, vidi le prime atrocità della mia esistenza. Avevo 18 anni.

Due giovani erano riusciti a nascondere le pistole. Li misero al muro e scelsero sette di noi per ucciderli. Pochi giorni e ci portarono a Dachau e poi a Mauthausen. Era maggio del 1944. Rimasi al campo fino all’anno successivo.

Dire che è stata dura è poco. Chi era fortunato riusciva ad avere un pezzo di pane in più strappato al vicino, perché moriva. Era lotta per la sopravvivenza. Gli altri erano destinati a fine certa.

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Dai vagoni del treno alla fabbrica di pietre. Al mattino, la conta, un pezzo di pane, la brodaglia di zucca alle 11 e alle 5 qualcosa di simile.

Tutto il giorno a veder morire la gente. Troppi bambini, donne, immagini di morte…

Ogni mattina, dalle baracche, uscivano 40-50 cadaveri. Ho visto cataste umane di 500-600 persone almeno.

Per chi non cedeva agli stenti, alla dissenteria, alla fame, alla paura c’erano le docce… Lì si moriva per le esalazioni del cianuro. Tutti sapevano che cosa succedeva. Tutti vedevamo le persone entrare e poi uscire dal fumo del camino…

Alla fine, arrivarono gli americani, poi i russi. Siamo rimasti al campo ancora 6-7 giorni. La Croce Rossa ci aiutava. Volevo solo partire, ma non mi rendevo conto nemmeno del luogo in cui mi trovavo. Alla fine, ci portarono a Bolzano con i camion. Di lì, in pullman fino a Torino. Tornai ad Alba che non avevo ancora vent’anni. Pesavo 37 chili».

 

 

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