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Gogna liberal contro la Taverna Santa Chiara di Napoli: colpevole di verità su Gaza

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Una taverna napoletana nel mirino per aver espresso dissenso contro l’apartheid israeliana. Nessuna discriminazione, solo un video manipolato e la gogna social guidata dal nuovo estremismo liberal. Dire la verità su Gaza oggi è un atto rivoluzionario.

Il caso Taverna Santa Chiara: dissenso sotto attacco nel clima inquisitorio del nuovo conformismo liberal

Di fronte al massacro in corso a Gaza, un piccolo ristorante del centro storico di Napoli, la Taverna Santa Chiara, si è ritrovato al centro di una bufera mediatica costruita ad arte. L’accusa — infondata — è antisemitismo. Ma la vicenda solleva interrogativi ben più gravi: fino a che punto è ancora lecito esprimere dissenso politico senza essere travolti dalla macchina del fango alimentata da social network, media compiacenti e opinionisti in cerca di visibilità?

Tutto comincia con un video. Una ripresa parziale, decontestualizzata, in cui una coppia di turisti israeliani accusa la titolare del ristorante di antisemitismo, dopo aver ricevuto — senza insulti né minacce — una semplice dichiarazione politica: la Taverna aderisce alla campagna Spazi Liberi dall’Apartheid Israeliana. Nessuna discriminazione, nessun divieto d’ingresso, nessuna offesa. Solo un confronto civile, scivolato poi in provocazione deliberata, ripresa con lo smartphone e riversata sui social come presunta “testimonianza di odio”.

La reazione è immediata. Piattaforme social, testate giornalistiche e opinionisti liberal di lungo corso — molti dei quali da anni impegnati a sorvegliare e reprimere ogni deviazione dal pensiero unico — si scagliano contro la titolare, Nives Monda, trasformandola nel bersaglio simbolico di una campagna che ha poco a che fare con i diritti e molto con la repressione del dissenso.

La criminalizzazione del dissenso: un modello già visto

Il modello è ormai rodato: si prende un fatto minimo, si deforma, si amplifica, si innesca una tempesta mediatica che cancella ogni possibilità di chiarimento. In poche ore, la Taverna Santa Chiara, nota per il suo impegno solidale e per l’attivismo sociale, viene descritta come luogo d’odio.

A nulla servono i chiarimenti, a nulla serve ribadire che nessuno è stato cacciato o insultato. Il processo è già in corso, e la sentenza è quella imposta dal tribunale dell’indignazione istantanea.

A guidare la crociata digitale non sono solo profili anonimi o media conservatori. In prima linea si trovano figure pubbliche del cosiddetto progressismo istituzionale, come l’ex deputata Anna Paola Concia, da tempo protagonista di una narrazione che confonde scientemente l’opposizione al regime israeliano con l’odio verso il popolo ebraico.

In un tweet indignato, Concia parla di “vergogna”, di “baratro morale”, accostando senza esitazioni la scelta politica della Taverna a una forma di discriminazione razziale.

Il solito circoletto dei liberal radicalizzati sui social lancia una shit storm inondando di recensioni negative il locale.

Un’accusa grave, ma anche sintomo di un cortocircuito più profondo. Nel nuovo orizzonte liberal, la solidarietà con il popolo palestinese è diventata sospetta. L’antifascismo si è svuotato di contenuti, mentre l’antirazzismo viene piegato a una visione selettiva e gerarchica dei diritti. Israele, in questa narrazione, è intoccabile. E chiunque osi porre domande, esprimere critiche, invocare giustizia per Gaza, viene accusato di fomentare l’odio.

I media e l’ipocrisia selettiva

Il ruolo dei media in questa vicenda è cruciale. Senza indagare, senza interpellare la diretta interessata, senza contestualizzare, diverse testate nazionali hanno rilanciato la versione della coppia israeliana come fosse un fatto accertato. Il frame era già pronto: “ebrei cacciati da un ristorante a Napoli”. La realtà, ben più complessa, è stata sacrificata sull’altare dell’indignazione performativa.

Nessun titolo ha messo in discussione la dinamica. Nessun approfondimento ha analizzato cosa significhi, oggi, aderire a una campagna come Spazi Liberi dall’Apartheid Israeliana. Nessun giornalista ha chiesto perché la parola “genocidio”, pur certificata da osservatori indipendenti e da relazioni ONU, venga ancora considerata tabù quando si parla di Gaza.

L’effetto è devastante: la realtà viene piegata al racconto. L’ingiustizia si rovescia in accusa. Chi denuncia l’oppressione diventa l’oppressore. Chi pratica la solidarietà diventa un “pericolo morale”. In questo contesto, la Taverna Santa Chiara è diventata un capro espiatorio, colpevole di aver rotto il silenzio.

Il clima inquisitorio del nuovo conformismo

A rendere questo caso particolarmente inquietante è il contesto in cui si inserisce. Il nuovo conformismo, spesso mascherato da “lotta all’odio”, è ormai diventato un apparato repressivo vero e proprio. Alimentato da figure dell’establishment liberal, da influencer travestiti da giornalisti e da politici di seconda fila in cerca di rilancio, il meccanismo mira a schiacciare ogni voce fuori dal coro.

I bersagli sono sempre gli stessi: attivisti, spazi sociali, artisti, accademici che osano esprimere una visione non allineata sulla questione palestinese. Il dissenso viene sistematicamente ridotto a devianza, l’indignazione si fa strumento di censura, la solidarietà viene dipinta come crimine.

È la logica delle liste nere, dei tribunali morali, delle purghe digitali. Una logica che, da “liberale”, ha ormai solo il nome.

La libertà di parola è messa sotto sorveglianza, e la verità diventa un problema da neutralizzare.

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Marquez
Marquez
Corsivista, umorista instabile.

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