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Crack USA, Trump sbatte contro la Cina: la guerra mondiale del debito è cominciata

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Trump rilancia la guerra commerciale globale: obiettivo, il mondo intero e la Cina in primis. Gli USA, sommersi dal debito, usano tassi e titoli come armi. Pechino reagisce, i mercati tremano. È l’inizio del crollo controllato o dell’ultima grande bolla americana?

La rivoluzione trumpiana contro la Cina: un boomerang geopolitico ed economico

La presunta “rivoluzione” trumpiana – annunciata a gran voce come una frattura radicale col sistema politico e geopolitico americano tradizionale – si sta rivelando, a conti fatti, una riedizione scolorita e grottesca dei più prevedibili schemi imperiali.

L’epopea muscolare del tycoon newyorkese, che prometteva una rottura col globalismo e una rinascita della sovranità economica, è finita a sbattere contro un muro chiamato Cina.

Non un nemico scelto per caso, ma la cartina al tornasole di quanto, dietro la retorica rivoluzionaria, si celi l’ennesima crociata del declinante impero a stelle e strisce contro la nuova potenza emergente.

Fin dall’inizio, il presidente statunitense ha impostato la sua visione della politica estera su un’idea fissa: frenare, contenere, possibilmente sabotare l’ascesa cinese. Un’ossessione condivisa anche da molti dei suoi presunti oppositori politici, tanto che la retorica anti-Pechino è divenuta la vera lingua franca dell’establishment americano: da Wall Street al New York Times, da Fox News a CNN, tutti sembrano concordi sul fatto che il “nemico del mondo libero” sia la Repubblica Popolare. E se da un lato Trump ha incarnato la versione brutale e primitiva di questo confronto, dall’altro Biden non ha fatto molto per cambiarne la traiettoria.

Dalla guerra alla globalizzazione alla guerra al pianeta intero

Il primo round della guerra commerciale lanciata da Trump durante la sua prima presidenza fu un fallimento conclamato. Tariffe su centinaia di miliardi di dollari di merci cinesi, retorica incendiaria, appelli al patriottismo economico: nulla servì a piegare la Cina.

Al contrario, Pechino dimostrò una resilienza sorprendente, mantenendo stabili le esportazioni verso gli Stati Uniti e persino incrementando quelle verso altri Paesi, spesso complici inconsapevoli del gioco delle triangolazioni.

Il commercio globale non si piegò alle minacce trumpiane: semplicemente, cambiò tragitti e partner. Mentre Washington batteva i pugni sul tavolo, le merci cinesi continuavano a circolare, spesso con etichette diverse ma invariata sostanza.

A quel punto, Trump – tornato in versione on steroids – ha rilanciato, spostando il baricentro dallo scontro bilaterale con la Cina a una vera e propria guerra commerciale mondiale. L’obiettivo? Isolare Pechino colpendone non solo l’export diretto verso gli USA, ma anche quello indiretto, mascherato da triangolazioni o passaggi doganali di comodo.

Una strategia ambiziosa, che prevede l’imposizione di dazi generalizzati e una pressione asfissiante su tutti i partner commerciali affinché si adeguino, anche a costo di sacrificare i propri interessi economici.

A guidare questa crociata commerciale c’è, ancora una volta, la vecchia logica imperiale: se vuoi sedere al tavolo con Washington, devi dimostrare fedeltà assoluta. L’Italia, ad esempio, è stata “ricompensata” per l’uscita dalla Via della Seta con l’indifferenza americana, mentre Giorgia Meloni cerca disperatamente legittimazione presso il nuovo Re Sole americano, sperando che la fedeltà atlantista le valga qualche briciola di prestigio. Lo stesso copione si ripete in Giappone e Corea del Sud, alleati storici degli USA, costretti a bilanciarsi tra esigenze economiche e fedeltà geopolitica, in un contesto sempre più instabile.

Ma la guerra commerciale mondiale ha un costo, e non solo in termini economici.

L’arma del debito e l’illusione del crollo controllato

L’azzardo trumpiano ha iniziato a destabilizzare anche i mercati finanziari. Dopo l’annuncio del cosiddetto Liberation Day, i mercati azionari hanno subito un vero e proprio terremoto. Normalmente, un simile shock porta i capitali in fuga verso l’approdo sicuro dei Treasury statunitensi, i titoli di Stato americani.

E in effetti, inizialmente, i rendimenti dei titoli decennali sono crollati, segnale che il piano poteva funzionare: abbassare il costo del debito per finanziare la reindustrializzazione, uno dei capisaldi della retorica MAGA.

Ma l’euforia è durata poco. Nel giro di poche ore, i rendimenti sono tornati a salire. L’effetto rifugio non si è concretizzato, e i mercati hanno lanciato un segnale chiaro: la fiducia nei confronti del debito USA non è più automatica. In molti hanno indicato Pechino come possibile responsabile della retromarcia: un’ipotetica vendita massiccia di titoli di Stato come forma di ritorsione.

È plausibile, ma anche rischioso per la stessa Cina. Usare quel potenziale “missile ipersonico finanziario” significherebbe innescare un’escalation globale che danneggerebbe anche Pechino stessa, ancora profondamente integrata nei circuiti dell’economia mondiale.

Eppure, il solo fatto che questa minaccia esista evidenzia un cambiamento epocale nei rapporti di forza globali. La Cina non è più un semplice attore subordinato alla globalizzazione statunitense: è un polo autonomo, capace di influenzare (e destabilizzare) le dinamiche economiche mondiali.

Inoltre, il peso dell’export sul PIL cinese è oggi inferiore al 20%, in calo costante: Pechino punta sempre più sul rafforzamento del mercato interno, strategia opposta a quella seguita dall’Occidente mercantilista. Il dragone asiatico ha compreso che il futuro passa per l’autosufficienza e lo sviluppo endogeno, non per la dipendenza da consumatori americani indebitati.

In definitiva, la “rivoluzione” trumpiana si sta rivelando per quello che è: un tentativo disperato di restaurazione imperiale, mascherato da sovranismo populista. Una reazione rabbiosa alla perdita di egemonia, che riunisce in un fronte unico reazionari suprematisti e liberal benpensanti. Ma questa volta, l’avversario non è più il solito Stato-canaglia da bombardare: è la Cina del XXI secolo, forte, disciplinata, produttiva, e sempre meno dipendente dal mondo occidentale.

La guerra è tutt’altro che finita, ma se il primo tempo ha visto Trump e Biden rimanere a bocca asciutta, il secondo rischia di consegnare a Pechino l’egemonia su un ordine multipolare che – nonostante le guerre, i dazi e le minacce – avanza, inesorabile.

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