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lunedì, Giugno 23, 2025
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Il conformismo rivoluzionario dopo George Floyd: cambiare per non cambiare

La furia iconoclasta dopo George Floyd nasconde il rischio di un conformismo rivoluzionario: abbattere statue, cambiare copertine di dischi e titoli di film fa il verso al me too hollywoodiano, che a conti fatti non ha aiutato nessuna attrice ma ha messo al bando talenti come Kevin Spacey o esiliato Woody Allen.

In questo modo non si manifesta la volontà di abbattere un sistema, ma la paura di restare fuori da quel sistema che per sopravvivere taglia le proprie teste, come un idra.

Dopo Georg Floyd: dalle statue abbattute ai film cancellati

Abbattimenti di statue, cancellazione di film dai canali di streaming, squadre di football che cambieranno nome dopo un secolo dalla fondazione, liste di epurazione stilate dalla maggioranza benpensante, ritiri di prodotti commerciali sbiancanti come il borotalco e adesso anche la musica, con band che si mettono cautelativamente a cambiare nomi e copertine di dischi.

È il caso degli Animal Collective, del loro bellissimo album Here Comes the Indian dal titolo incriminato e l’EP People su cui è raffigurata una tata di colore che tiene a bada due bambini di pelle bianca.

“Chiediamo perdono per aver utilizzato uno stereotipo razzista” dicono quando nessuno per 20 anni e tutt’oggi l’aveva giudicato tale se non uno sparuto gruppo di fan sui social; ed ecco che si tornare a parlare di una band che non ha niente da dire da anni.

Animal Collective – People

 

Il consenso raccolto dal revisionismo scaturito dalle proteste per l’uccisione di George Floyd e che si estende in una fascia di popolazione trasversale che va dai boomers ai millenials, sembra assumere la funzione di un cerotto a una ferita ancora aperta che ne esacerba l’infezione: un’iconoclastia che avvalla e promuove la formulazione di nuovi reati d’opinione.

E la musica alternativa che un tempo era sinonimo di anticonformismo, è diventata invece l’avanguardia di questa stagione conformista che incoraggia la rimozione di tutto ciò che non è politicamente corretto.

Il contrario dell’indipendenza per una scena musicale fagocitata dal mercato e dipendente dal consenso.

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I prodromi risalgono qualche anno fa con i Vietcong, autori di uno dei dischi più ispirati degli anni dieci, che scelsero di cambiare nome in Preoccupations perché i locali statunitensi non li facevano suonare, con quel nome che ricordava alla coscienza sporca dell’America – non a caso il luogo da cui sempre partono queste campagne puritane – quella guerra d’invasione infame.

Viet Cong – Viet Cong

 

Succede tutte le volte che non si è fatto i conti col proprio passato: se volete rinforzare un atteggiamento desueto, proibitelo, dicono gli psicologi sociali.

Ci sarebbero armi di dissuasione più mature, soprattutto per artisti che dovrebbero sbatterci in faccia le nostre ombre e accompagnarci nella loro sublimazione anziché avallare retoriche di potere.

L’arte non deve essere una succursale della pedagogia più moralista ma manifestare semmai l’abissale chimera di una nefasta morale universale.

Non chiedete ai demoni fertili di poeti e musicisti di ricondurvi nel recinto dei buoni sentimenti, perché “dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva”, ricordava Holderlin.

E se i poeti dai tempi di Platone scontano la fama di immorali e sono profeticamente esclusi dalla Repubblica, allora rivolgiamoci alla scienza: un certo Sigmund Freud sosteneva che la rimozione di contenuti proibiti alla coscienza è all’origine della malattia mentale.

Il padre della teoria psicoanalitica chiamava con l’eloquente “Disagio della civiltà” l’effetto della scelta del bisturi di un’intera società rispetto all’accettazione della complessità dissonante della realtà.

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Luca Buonaguidi
Luca Buonaguidi
Scrittore e psicologo, ha pubblicato libri di viaggio, di musica e di poesia.

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