Far East Film Festival 2020: il cinema coreano ricostruisce la vicenda dell’omicidio dell’autoritario presidente Park Chung-hee attraverso tre lungometraggi, tre finestre sulla stessa realtà.
Il cinema coreano fa i conti con la storia
Ci sono date spartiacque, nella storia di un paese, che segnano l’immaginario locale al punto di far capolino spesso nelle cinematografie di riferimento.
Tale è il 6 ottobre 1979, giorno in cui il presidente sudcoreano Park Chung-hee venne assassinato dall’amico e (apparentemente) fedele collaboratore Kim Jae-gyu, Direttore della Korean Central Intelligence Agency (KCIA) e capo del suo servizio di sicurezza.
La cosa fece ovviamente scalpore e fu gravida di conseguenze, per il futuro della nazione. Nel periodo precedente e in quello immediatamente successivo all’evento in questione, la Corea conobbe solo un rigido, brutale, militaresco controllo.
Lo stesso, carismatico Park Chung-hee, che manteneva la carica di Presidente dal lontano dicembre 1963, si era posto a capo di una (neanche troppo) velata dittatura militare; la corruzione era all’ordine del giorno, il progresso economico copriva evidenti squilibri sociali e qualsiasi forma di opposizione veniva stroncata con fermezza.
Ma i “periodi di transizione” raramente sono indolori.
Repressione e restaurazione
E così avvenne che, dopo l’eliminazione del controverso Presidente ed ex Generale di Brigata, i congiurati furono letteralmente spazzati via da uno spietato processo. Una giunta militare non meno feroce prendeva il controllo della situazione.
A testimoniarlo il cinico operato di Chun Doo-hwan, successore del defunto Park, che autorizzò (con il beneplacito, udite udite, dell’amministrazione Carter) inauditi massacri da parte dei militari, per sedare la rivolta scoppiata nel 1980 a Gwangju contro la sua presidenza.
Una mattanza in base alla quale venne pure condannato a morte, nel 1996, salvo poi ricevere l’amnistia da Kim Young-sam. Questi subentrò come Presidente dopo aver paradossalmente rischiato, da attivista, di cadere vittima delle stesse repressioni avvenute nei primi anni ’80.
Bene. Questo rapido sunto rischia di apparire come uno spurio Trono di Spade coreano, ma era assolutamente necessario introdurre certi fatti, se si vuole capire il successo ottenuto da certi film nelle ultime decadi.
A Taxi Driver
Scriveva Giulia Pompili nel 2017 sul Foglio:
Sono passati trentasette anni ma oggi finalmente di Gwangju si può parlare liberamente, ed è un’altra liberazione. Non è un caso se il film più visto al cinema in Corea del sud, quest’anno, sia A Taxi Driver, diretto da Jang Hoon.
Il film racconta la storia del tassista che accompagnò il tedesco Jürgen Hinzpeter, unico giornalista occidentale che riuscì a essere presente, nel maggio del 1980, a Gwangju.
Hinzpeter in Corea del sud è una specie di eroe nazionale, il testimone dagli occhi azzurri, dopo la sua morte, avvenuta lo scorso anno, ha chiesto e ottenuto di poter essere seppellito al cimitero di Gwangju.
La vera identità del suo fixer è stata rivelata poche settimane fa, dopo l’enorme successo del film: si chiamava Kim Sa-bok.

Ordunque, il pubblico italiano può finalmente confrontarsi con questo cult movie Made in Korea” Sebbene l’era Covid proponga adesso uno strano interregno, in cui a sporadiche visioni in sala si alternano molte più iniziative legate allo streaming…
Ed è così che l’Andromeda di Roma, tanto per fare un esempio, non avendo ancora riaperto fisicamente si affida a sale virtuali per consentire la visione a casa di film recentemente distribuiti.
L’antieroe di Song Kang Ho
Tra questi per l’appunto A Taxi Driver, eccezionale proposta cinefila dei friulani della Tucker Film.
Il lungometraggio che ha toccato il cuore del pubblico coreano si è rivelato alla prova del nove un’opera dall’etica profonda, coinvolgente sul piano emotivo e dotata anche di un robusto impianto spettacolare.
Centrale, nell’incalzante iter narrativo, la figura del tassista Kim Sa-bok, generoso (anti)eroe interpretato dal massiccio e popolarissimo attore coreano Song Kang Ho.

Alcuni senz’altro ricorderanno la sua presenza in capolavori del cinema coreano come Lady Vendetta di Park Chan-wook o Parasite di Bong Joon-ho, recentemente insignito della Palma d’Oro a Cannes e di svariati Oscar, tra cui quello davvero storico per il Miglior Film.
In A Taxi Driver il coriaceo interprete è una sorta di Alberto Sordi orientale, in grado di mutare progressivamente l’iniziale menefreghismo e indifferenza nei confronti dei rivoltosi di Gwangju; inorridendo di fronte ai massacri indiscriminati dei militari al punto di farsi poi in quattro, rischiando a sua volta la vita, pur di aiutare la popolazione della cittadina sotto assedio e quel giornalista straniero giunto fin lì per far conoscere al mondo la verità.
Ora però torniamo pure all’oggetto principale del nostro discorso: quella data, il 6 ottobre 1979, tornata più volte alla ribalta nella storia recente del cinema coreano.
The President’s Last Bang
Ed è anche qui la cinefilia imperante da anni in Friuli Venezia Giulia ad averci offerto un preziosissimo spunto, nel corso di quel 22° Far East Film Festival organizzato anch’esso, per le note ragioni, in streaming.
Martedì primo luglio erano stati infatti programmati ben due film realizzati in Corea del Sud per ricordare ed analizzare, da punti di vista differenti, il letale attentato che a Seoul costò la vita al già menzionato Park Chung-hee e ad alcuni uomini del suo entourage.
Da un lato la versione restaurata di un “classico” di Im Sang-soo datato 2005, The President’s Last Bang; e dall’altro il più recente The Man Standing Next di Woo Min-ho, prodotto proprio nel 2020.

Al di là delle epidermiche somiglianze nella ricostruzione basica degli eventi, le due pellicole rivelano diversità tali, in quanto ad approccio registico e struttura narrativa, da rendere assai stimolante un confronto.
Per quanto concerne The President’s Last Bang, definito da alcuni il film più politico della storia del cinema sudcoreano, oltre all’esser girato prima ha dalla sua la differente caratura dell’autore in questione.
Im Sang-soo è uno dei più raffinati cineasti coreani; a lui si devono titoli come La moglie dell’avvocato (2003) e The Housemaid (2010).
Cinema coreano e le radici del potere
In The President’s Last Bang il suo sguardo sulle radici profonde del potere, sui rapporti di forza interni al regime, ci ha ricordato per certi versi quello espresso, in analoghe situazioni, dal nostro Bellocchio. Uno sguardo caricaturale, spiazzante, grottesco, sottilmente straniante.
Il classico specchio deformante, volendo, in cui ritrovare le aporie di una dittatura al tramonto, i difetti costitutivi di una società autoritaria e corrotta.
Nell’affrescare questo patetico crepuscolo degli dei, Im Sang-soo ha poi scelto un arco temporale ristretto; dalle ore immediatamente precedenti l’attentato porta di gran carriera al caos politico e istituzionale, generatosi dopo la sparizione di Park; coi “traditori” del Leader appena esautorato incapaci di prendere le redini del gioco e i più scaltri esponenti del vecchio regime già pronti a riciclarsi.
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The Man Standing Next
Decisamente più prosaico, ma non banale, l’approccio di Woo Min-ho. Anche lui regista di un certo peso del cinema coreano, tramite lungometraggi come The Spies (2012), Inside Men (2015) e The Drug King (2018) aveva già evidenziato una qualche predilezione per detection complesse, trame spionistiche, apologhi sul potere e agenti under cover.

Questo suo The Man Standing Next riecheggia le formule più classiche dello spy game, per approfondire le psicologie, le rivalità personali e le più o meno note ambizioni degli uomini-chiave di quel preciso momento storico.
Da Kim Kyu-pyeong, il direttore della KCIA poi protagonista dell’audace colpo di mano, alla sua vittima e mentore in precedenza, il presidente Park; dal vecchio amico ed ex capo della KCIA Park Yong-gak, che minacciava di rendere noti segreti compromettenti del regime al Congresso americano; fino al nuovo capo della sicurezza, il sociopatico e violento Kwak Sang-cheon.
Nel seguire le oscure parabole di tali individui, il film di Woo Min-ho ha senz’altro un limite, quello di restare troppo aderente a determinate dinamiche di genere. Ma la regia accurata e un cast stellare (dove nei ruoli cardine compaiono alcuni tra i migliori attori coreani in attività) mantengono alta la curiosità dello spettatore nei confronti dell’intreccio. La storia copre un periodo decisamente più ampio rispetto alla concentratissima narrazione portata avanti da Im Sang-soo.
Così come altissimo, nel complesso, è l’interesse suscitato in noi dai film di cui vi abbiamo parlato, intrigante testimonianza di fatti forse poco noti in Italia, ma di enorme importanza nella Storia della travagliata nazione asiatica.
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