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venerdì, Giugno 20, 2025
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All’Istituto di Cultura Giapponese vagonate di pregevole animazione nipponica

A Roma l’Istituto Giapponese di Cultura è sempre stato, per chi scrive, una fucina di meravigliose scoperte. Quante ne potremmo ricordare! Dalle corpose retrospettive di “classici” quali possiamo considerare per intero le filmografie di Yasujirō Ozu e Kenji Mizoguchi al frastagliato, sovversivo percorso autoriale di Nagisa Ōshima.

Dall’attesissima venuta di Shinya Tsukamoto, nel 2003, agli omaggi ad autori forse meno noti, da noi, ma dalle poetiche così spesso innovative e sorprendenti; come nel caso dell’immaginifico Nobuhiko Obayashi o di Junji Sakamoto, regista non meno eclettico, votato a trasfigurare le ambientazioni a lui care della Osaka più popolare e vitale in originali partiture di genere.

Naturalmente in un menù tanto ricco anche manga e anime hanno svolto un ruolo importante. Sin dalle passate stagioni. E così ci siamo fiondati là con grande entusiasmo, a gennaio, quando ha preso il via CineAnimeMania: una rassegna di cinema d’animazione con ben dieci titoli in cartellone, che avrebbe dovuto durare fino al 12 marzo ma che è stata ovviamente stoppata prima, per via della nota e triste emergenza sanitaria che da settimane stiamo vivendo.

 

Abbiamo fatto comunque in tempo a vedere o rivedere, in determinati casi, autentici capolavori, come pure prodotti più commerciali ma ugualmente dotati di brio e di un solido legame con gli interessi e col gusto degli adolescenti, nel Giappone di oggi o del recente passato.

Riteniamo infatti preferibile non soffermarci più di tanto, in questa sede, sulle opere proiettate all’Istituto di Cultura Giapponese che hanno già beneficiato di una certa (e il più delle volte strameritata) notorietà presso gli appassionati nostrani, fosse anche per quella distribuzione in sala di due o tre giorni in forma di “evento speciale” affermatasi, negli ultimi anni, quale consolidata strategia di mercato.

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Ci sono stati pertanto lungometraggi di chiara fama che abbiamo potuto ammirare nuovamente sul grande schermo, ad esempio Wolf Children – Ame e Yuki, i bambini lupo (2013) e Mirai (2018) di Mamoru Hosoda; alla stregua dei primi passi nella carriera di una delle figure più originali, intimiste e profonde dell’animazione contemporanea, ovvero Makoto Shinkai, di cui sono stati riproposti Oltre le nuvole, nel luogo della promessa (2004) e Cinque centimetri al secondo (2007).

 

Di loro qui non parleremo. Mentre un’eccezione la facciamo volentieri per In questo angolo di mondo (2016), che, pur essendo apparso per pochi giorni nelle sale italiane, ha rappresentato per chi scrive uno shock emotivo del tutto meritevole di essere raccontato.

Tratto dal manga di Fumiyo Kōno, questo film è un gioiello sia per lo spessore dei temi trattati che per l’ispirata regia, capace di passare in pochi istanti da ameni tratti bozzettistici e toni minimalisti a scorci di improvvisa e dolente visionarietà.

Il regista Sunao Katabuchi, già autore nel 2001 di un lungometraggio notevole come Princess Arete (presente anch’esso in rassegna), si è difatti accollato una missione non facile, in particolare dal punto di vista etico: riscrivere, anzi, “ridisegnare” letteralmente uno dei drammi collettivi più raccapriccianti, vergognosi e crudeli di tutto il Novecento, ovvero l’infame atto compiuto dagli americani sganciando bombe nucleari prima ad Hiroshima e poi a Nagasaki, tragico orizzonte degli eventi cui si allude qui assieme a svariati altri orrori affrontati dalla popolazione civile durante la Seconda Guerra Mondiale.

Sunao Katabuchi, In questo angolo di mondo (2016)
Sunao Katabuchi, In questo angolo di mondo (2016)

Quasi inevitabile il confronto con l’altro grande “classico”, in cui il doloroso episodio dell’atomica sul Giappone è stato affrontato ancor più direttamente, ovvero Gen di Hiroshima, l’agghiacciante shōnen manga di Keiji Nakazawa che ha dato poi vita all’anime diretto nel 1983 da Mori Masaki, titolo internazionale Barefoot Gen (Hadashi no Gen in originale).

Le vicende parimenti cupe e angoscianti esposte in Barefoot Gen e nel più recente In questo angolo di mondo mostrano magari qualche analogia, nelle strategie narrative adottate dai rispettivi autori, per prendere poi ognuna un proprio sentiero, connotato da un diverso codice rappresentativo.

Di simile vi è senz’altro la scelta assai indovinata di far affezionare il pubblico ai protagonisti, mostrandone con toni anche leggeri la quotidianità antecedente al lancio della bomba, così da creare i presupposti per raffigurare l’orrore della guerra in tutta la sua efferatezza.

Ciò che ne deriva è perciò un continuo oscillare tra momenti di inusitata delicatezza e quasi insostenibili pugni allo stomaco. Accarezzata sì rudemente la tragedia, siamo ora pronti ad alleggerire i toni. Fino a un certo punto. Perché pure nei prodotti più scanzonati quel che adoriamo dell’animazione nipponica è propria l’ardito “melting pot” atmosferico, in virtù del quale nella stessa opera possono a volte convivere slanci melodrammatici e demenzialità pura, atti di eroismo e goliardate senza ritegno.

Ci sembra questa la ricetta migliore per descrivere Bravo Shinchan! La battaglia dei samurai, delizioso lungometraggio realizzato da Keiichi Hara nel 2002.

Trattasi addirittura del decimo film per il grande schermo, la cui fonte d’ispirazione è Shin-chan: fortunata serie televisiva con protagonista l’omonima piccola peste, alle prese stavolta con un rocambolesco viaggio nel tempo destinato a catapultarlo nel XVI secolo, dove con l’aiuto della non meno scombiccherata famigliola riuscirà persino ad incidere su un acceso scontro tra clan rivali nel Giappone feudale.

Del resto Keiichi Hara è lo stesso regista del successivo, amabile, coltissimo Miss Hokusai, biopic animato datato 2015 e dedicato alla figlia artista del Maestro Hokusai, il pittore e incisore giapponese famoso in tutto il mondo; come a testimoniare una persistente, lodevole curiosità dell’autore nei confronti del passato e della cultura dell’arcipelago nipponico, considerando che già in Bravo Shinchan! La battaglia dei samurai i toni epici e gli stilemi del Jidai-geki, genere storico che ha sovente per protagonisti indomiti samurai, alteri signori feudali e contadini sfruttati, risultavano contaminati con le picaresche, buffe avventure di Shin-chan, ragazzino terribile dalla lingua troppo lunga e le chiappette agitate al vento per sbeffeggiare gli adulti.

Ci siamo progressivamente accostati all’idea di serialità, di cinema popolare, nonché all’affascinante tema del vertiginoso contrasto tra Giappone moderno e retaggi tradizionali.

Un motivo in più per chiudere la nostra rapida carrellata con un coloratissimo prodotto tutto sommato recente e rivolto, in via prioritaria, al pubblico delle teenager giapponesi: Pop in Q, musical animato scritto da Shūko Arai e diretto da Naoki Miyahara, che la Toei Animation fece debuttare nel 2016.

Pop in Q (2016)
Pop in Q (2016)

Tanti ingredienti accattivanti per questo fantasy ambientato a cavallo tra la nostra realtà e un’inedita dimensione magica, dove vengono ben presto risucchiate le ragazzine protagoniste: universi paralleli in procinto di collassare, costumi stravaganti, creaturine adorabili dai singolari poteri, il ballare tutti insieme quale risposta a un’oscura minaccia e un prevedibile repertorio di motivetti J-Pop, in grado di conquistare agevolmente il pubblico delle giovanissime.

Tutto scorre facile facile sull’onda dell’emozione. Ma a rendere più meritoria un’operazione del genere, dalle dichiarate finalità commerciali, sono sia quei messaggi inneggianti alla solidarietà e al superamento delle reciproche diffidenze, di cui è intessuto il racconto, sia quella capacità di “ascoltare” e rielaborare le problematiche del pubblico giovanile, che rende emotivamente carico e piacevole da seguire tanto cinema d’animazione giapponese; pure quando non ci sono di mezzo grandi autori e storie memorabili, come in questo caso, bensì opere d’intrattenimento ben strutturate, piene d’immaginazione e legate a doppio filo alle dinamiche più sottili della società cui appartengono.

    

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Stefano Coccia
Stefano Coccia
Giornalista dello spettacolo e critico cinematografico da più di vent'anni, un tempo nel Comitato dei collaboratori fissi della storica Cinemasessanta, attualmente collabora con Sul Palco, CineClandestino e Taxi Drivers ->

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