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Riscoprire il lavoro per salvare la pace

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In un’Europa sempre più ossessionata dal riarmo e dalla digitalizzazione, il lavoro materiale viene svalutato e delegato a nuovi “servi” migranti. È urgente risollevare la bandiera del lavoro, fondamento costituzionale e antidoto alla deriva bellica e disumanizzante.

Contro la retorica bellica, serve una nuova centralità del lavoro nella politica democratica

In un tempo in cui la politica occidentale appare sempre più attratta dalle sirene del riarmo, della deterrenza militare e della retorica della guerra inevitabile, il ritorno al tema del lavoro non è solo necessario: è un atto di resistenza civile e democratica.

Da troppo tempo, la centralità del lavoro come fondamento della comunità nazionale è stata oscurata da un paradigma economico smaterializzato, che esalta il profitto finanziario e marginalizza la produzione materiale. Questa mutazione culturale, prima ancora che politica, ha reso il lavoro – soprattutto quello manuale – invisibile, svilito e sostituibile. E proprio in questa svalorizzazione sistemica si annida una delle cause profonde della deriva autoritaria e guerrafondaia che attraversa il nostro tempo.

Non si tratta soltanto della disoccupazione o del precariato dilagante, ma di una trasformazione più radicale: il lavoro non è più vissuto come elemento costitutivo della dignità umana e del patto repubblicano, ma come una funzione residuale, spesso delegata ai più deboli – in particolare agli immigrati – in un’ottica neocoloniale che contraddice ogni principio di giustizia sociale.

È così che si legittima l’idea di “lavori che gli italiani non vogliono più fare”, trasformando un problema politico e sindacale in una narrazione moralistica e ipocrita. Invece di lottare per un innalzamento generalizzato delle condizioni contrattuali, si accetta – anzi, si promuove – la logica della segmentazione etnica del lavoro, normalizzando un sistema di sfruttamento semi-schiavistico.

Ma se il lavoro viene derubricato a semplice variabile tecnica o sacrificabile all’altare della produttività automatizzata, si spalanca inevitabilmente lo spazio per l’autoritarismo. Il cittadino che non produce né lavora è più facilmente manipolabile, più disponibile a delegare le proprie scelte a un potere paternalista, più incline ad accettare l’idea che la guerra – quella vera, quella che devasta città e popoli – sia una conseguenza necessaria del mondo che ci viene imposto.

Il lavoro come baluardo contro la guerra

In questo scenario, la sostituzione del lavoro umano con l’automazione e l’intelligenza artificiale – celebrata da ampi settori del progressismo neoliberale – non è solo un cambiamento tecnologico: è una cesura antropologica. L’idea che si possa vivere “a ufo”, scollegati dalla produzione e dalla fatica reale, produce una nuova alienazione, travestita da progresso.

Una moltitudine spaesata, né classe media né proletariato, sospesa in una condizione precaria, sopravvive tra sussidi minimi e illusioni digitali, mentre le élite rafforzano i propri privilegi garantendosi pace sociale a basso costo. È in questa frattura che si annida il rischio più grave: quello di accettare passivamente una società post-lavorativa e post-democratica, dove la guerra torna a essere l’unico orizzonte mobilitante.

Occorre, dunque, riportare la questione del lavoro al centro del dibattito politico, non come un tema tecnico ma come scelta di civiltà. Difendere il lavoro significa riconoscere il valore delle attività materiali – dall’edilizia alla logistica, dalla sanità all’agricoltura – come strutture portanti della collettività. Significa smascherare l’ideologia che separa il lavoro “degno” da quello “indegno”, che relega camionisti, macchinisti, OSS e agenti di sicurezza a funzioni servili, dimenticando che senza di loro la società crollerebbe nel caos. E significa, soprattutto, rilanciare una visione costituzionale del lavoro come diritto universale, capace di garantire a tutti “un’esistenza libera e dignitosa”.

In un’epoca in cui Ursula von der Leyen vola su jet privati per coprire tragitti di un’ora, mentre milioni di lavoratori sono sottopagati e ignorati, il richiamo all’articolo 1 della Costituzione – “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” – non è retorica, ma una rivendicazione politica urgente.

Perché dove il lavoro viene svilito, la guerra si prepara. E dove il lavoro viene rispettato, la pace si costruisce. Oggi più che mai, al populismo sterile e alla tecnocrazia disumana, occorre rispondere con una nuova bandiera del lavoro: inclusiva, concreta, fondata sulla giustizia sociale e sulla dignità materiale di tutti.

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Marquez
Marquez
Corsivista, umorista instabile.

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