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Una vita di archetipi esemplari: i sessant’anni di Maradona sono il manifesto vivente dell’impossibilità di essere normali.
I sessant’anni di Maradona, materia trascendente da romanzo
Vent’anni dopo il suo ritiro dai campi di gioco, Maradona resta il manifesto vivente dell’impossibilità di essere normali. Gli elementi distruttivi e quelli creativi si intrecciano e si animano nella sua vicenda umana senza sosta.
Nell’esistenza di Diego Armando c’è un impianto mitico, una storia personale che pare uscire dalle cornici delle narrazioni esemplari, come ci dicevano a scuola, dove si ripercorre un cammino tra slanci e contraddizioni, di quelle capaci di dare un senso alla natura umana, passando per il profano.
La sua, dunque, è una vita di archetipi: figlio di un falegname di Lanús, bambino prodigio dal talento inarrivabile, i goal leggendari, ascesa e caduta tra figli non riconosciuti, droga, questure e colpi di teatro, come la fuga a Cuba da Fidel Castro.
Maradona, capopopolo per vocazione naturale: arrivato a Napoli il 4 luglio dell’84 trova 70000 persone ad aspettarlo allo stadio solo per vederlo palleggiare.
Diego non è stato un giocatore del Napoli, ma di Napoli. Non è stato il capitano del Napoli, ma di Napoli.
Come scrisse Gianni mura nel 1985:
Tutti i campioni del calcio amano il pubblico, a parole, poi ognuno al suo posto. Maradona nei bagni di folla ci guazza come un’anatra, tutti quei tifosi li sente con e per lui come lui è con e per loro, ma sul serio. Altri professionisti del pallone, anche molto bravi, non sono così coinvolti, pur non vivendo sulla torre d’avorio. Non ritengono di farsi coinvolgere, per pudore, per paura o per aridità. Maradona no, è attento e sensibile anche alle voci dal basso: non è uno che ci marcia, ma uno che ci crede. Raramente, credo, il nostro calcio ha mostrato un’adesione così immediata fra l’anima di una città e quella di un uomo (non di una squadra, o almeno non direi, ancora). Anche la lingua aiuta: guappo, guapo, lo capiscono anche a Baires, tango e tammurriata hanno le stesse cadenze. Maradona, artefice magico, estrae dal cilindro del suo piede miracoli a gettone. Meglio non credere più ai miracoli, Maradonapoli è oro; è ora, forse.
(La Repubblica, 5 novembre 1985)
L’estetica dei goal.
Non è importante ora dire quale sia stato il gol più bello di tutti i tempi, come si fa spesso sui forum dei tifosi o tra articoli acchiappa click sui giornali. C’è una mitologia del calcio che va oltre: come spiegare altrimenti l’incredibile rete del secolo contro l’Inghilterra ai Mondiali del 1986? Creazione pura, progressione emotiva che produce un pathos mai raccontato prima, come la voce del cronista argentino dell’epoca. Così la si è tramandata negli anni e questa ormai è la percezione storica.
E il celebre goal contro la Juventus del 3 novembre 1985? Punizione di seconda da battere nell’area di rigore, barriera a cinque metri, porta defilata ma a non più di una decina di metri. Traiettoria impossibile, mai più vista su un rettangolo verde e palla in rete. L’urlo del San Paolo come un onda ha resistito alla barriera del tempo.
La punizione di Maradona – Radiocronaca di Enrico Ameri
Maradona Jackyll
Ma la genialità ha in sé un lato oscuro, seducente, come il Jeckyll di Stevenson, in quanto contrario all’umanità ordinaria, da cui non può distaccarsi. Nel mondo della vita quotidiana Maradona non riesce a frenare le sue inclinazioni, trasformandosi in auto-minaccia e dando vita a ripercussioni nefaste che abbiamo visto negli anni, come fosse un perenne reality.
Già, perché l’epica mediale del calcio nasce veramente con Maradona. La sua vita è costantemente sotto i riflettori, sotto una spinta autoriale predestinata nel codice genetico.
Una delle ultime esperienze in panchina, in veste di allenatore, lo conferma ancora oggi. Una storia talmente assurda che Netflix ci ha fatto su un documentario. Si tratta di Maradona allenatore dei Dorados de Sinaloa, in Messico: arriva tra i prevedibili sospetti mediatici nella città del cartello della droga. Sospetti a cui risponde pubblicamente dicendo: Quelli che mi accusano sono più drogati di me. Ecco che Diego trascina la squadra a un passo dalla promozione, tra discorsi roboanti, balletti nello spogliatoio e litigate parossistiche con gli arbitri. E ancora, sparisce prima dell’inizio della nuova stagione e termina l’avventura per motivi di salute.
Sessant’anni di Maradona: non ci sono epigoni
Non ci sono, non possono esserci ancora epigoni. Messi, il pulcino triste, è roba da playstation, batte record su record, sempre con un sorriso appena accennato. Cristiano Ronaldo è il testimonial eterno di Mean’s Healt, l’atleta perfetto di cui si cantano le gesta sui giornali come fosse un influencer: guarda il nuovo taglio di capelli, segui la sua dieta, hai visto il nuovo look?
Degli idoli nostrani la narrativa non spicca mai il volo, non osa: di Totti dicono nell’urbe che è come uno di famiglia. Del Piero, per carità, continua a parlare con gli uccellini.
A Diego invece si chiedevano i miracoli, s’erigevano altarini pagani con la sua parrucca. Diego faceva il bagno nella vasca a conchiglia del boss Giuliano, come uno Scarface qualunque, passeggiava per l’Havana con Fidel Castro.
È altro spessore narrativo. È materia trascendente da romanzo, carne viva e fumetto.
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I sessant’anni di Maradona e altre storie di sport